Centomila articoli in meno
Si scrive sempre meno di videogiochi e si tende a parlare soprattutto dei temi più importanti. Forse abbiamo rinunciato al ruolo della critica e della stampa?
In queste ore sono usciti lo ying e lo yang del mondo videoludico: da una parte abbiamo la remaster di Oblivion, un gioco del 2006 con tutte le rigidità di un gioco del periodo, ma rifatto con una nuova splendida veste grafica, che ha rapito le menti e i cuori di chi magari lo aveva amato in giovane età e oggi si esalta per questo ritorno nostalgico (che comunque, secondo me, ha un interesse anche storico, ma non è questo il punto).
Dall’altra parte c’è Clair Obscur Expedition 33, un titolo nuovo, di uno studio francese alla sua opera prima che guarda a tante idee e meccaniche del giappone, ma lo fa a modo suo. Entrambi stanno andando benone, per fortuna, ma Clair Obscur sta proprio spopolando, soprattutto nella critica, che gli ha dato voti altissimi e parla di già di uno dei giochi più belli dell’anno, qualcuno addirittura di gioco più bello degli ultimi anni.
Io sarà che con l’invecchiare son diventato un po’ impermeabile ai facili entusiasmi, ma qualche difetto in questo ottimo (ribadisco, ottimo) gioco li vedo. Una trama a volte troppo criptica o spiegata male, informazioni buttate addosso al giocatore tutte assieme, una scollamento tra certi messaggi della storia e le loro applicazioni, meccaniche interessanti ma niente di non visto, ambienti belli ma tutto sommato di cartone.
Ribadisco, è un titolo veramente buono, ma a volte penso che i giornalisti e content creator non vedano l’ora di essere gli araldi del bello, di essere quelli che pronunciano la parola capolavoro, un po’ come ogni commentatore di calcio vorrebbe dire “Campioni del mondo” e ci si faccia un po’ prendere la mano con gli entusiasmi, trasformando giochi veramente in buoni in cose imprescindibili con troppa fretta. Anche perché l’entusiasmo è una moneta che spendi bene nei video, nelle thumb di YouTube con le facce stupite e in generale in un mondo dove l’attenzione è scarsa.
Ma chissà, magari fra vent’anni faranno la remaster di Clair Obscur, come ti Oblivion, e probabilmente avevano ragione loro.
Una lenta erosione
Magari non ve ne siete accorti, e onestamente senza questa intervista non me ne sarei accorto neanche io, ma nel momento in cui i videogiochi escono a un ritmo sempre più vertiginoso — tra tripla A, indie, early access e remake — si scrive sempre meno. E non è una semplice sensazione.
Nel primo trimestre del 2025, i principali 135 siti di videogiochi del mondo hanno pubblicato 635.000 articoli, tra recensioni, notizie, guide, approfondimenti, aggiornamenti. Una cifra che sembra ancora gigantesca, ma che rappresenta un calo del 13% rispetto all’anno precedente. O, per metterla più brutalmente: 100.000 articoli in meno. Più di centomila voci che non si sono alzate. Più di centomila pezzi che non sono stati scritti, pubblicati, cercati, trovati (e pagati). Il tutto in tre mesi.
Secondo i dati di Press Engine – un sistema di distribuzione usato da publisher e sviluppatori per inviare codici e press release – la spiegazione è (in apparenza) semplice: quasi 3.000 press contact sono spariti dal database negli ultimi due anni. Un'emorragia di voci, professioni, percorsi.
Alcuni erano freelance, altri dilettanti, molti collaboratori part-time, ma tutti, a modo loro, erano parte di quel fragile ecosistema di racconto che costituiva la critica e l’informazione videoludica online. Che sembra fragile sono in Italia, ma che come abbiamo più volte notato è fragile anche altrove.
D’altronde negli ultimi periodi più volte abbiamo parlato di spazi che vengono chiusi o ridimensionati. Pensiamo a Eurogamer Italia, che mi sta a cuore perché è dove ho iniziato a scrivere sul serio, e che da qualche mese non ha solo chiuso, è proprio sparito del tutto, cancellando anni e anni di articoli, riflessioni e guide. Complimenti a chi ha preso questa decisione.
A questo vuoto umano si affianca un altro, meno visibile ma altrettanto corrosivo: quello algoritmico. Secondo Gareth Williams, fondatore di Press Engine, il colpo di grazia alla copertura dei videogiochi meno noti è arrivato con il cosiddetto “Helpful Content Update” di Google. L’aggiornamento, lanciato per premiare contenuti ritenuti “veramente utili” dagli utenti, ha di fatto spinto molti siti a rinunciare a scrivere di giochi di nicchia, titoli indie, esperienze borderline, per concentrarsi esclusivamente su quei prodotti capaci di generare traffico organico prevedibile. In altre parole: Fortnite, GTA, Call of Duty, FIFA, Elden Ring e poco altro.
Che poi, a dirla tutta, non è manco una novità, gli articoli sui giochi indie, per quanto siano fondamentali per una testa che si voglia chiamare tale e ci facciano anche sentire dalla parte giusta della storia quando li scriviamo, un po’ come i cinefili che non ti parlano dei blockbuster, ma di quello sconosciuto film coreano, spesso se li leggono in pochi, a meno che proprio non li scriva qualcuno con un grandissimo traino social.
Meno lettori, più spettatori
Anche perché, il punto, forse, è che si legge sempre meno. Per informarsi oggi ci sono mille fonti differenti: video, reel, e molto spesso sono gli stessi produttori di videogiochi a scavalcare la stampa fornendo direttamente al pubblico gli strumenti per valutare.
Il paradosso è che questo avviene nel momento in cui la produzione indie non è mai stata così ricca, interessante, e narrativa. Ma questi giochi, per esistere davvero nell’ecosistema mediale, hanno bisogno che qualcuno ne parli. E se nessuno può permettersi di scrivere di un gioco che “non tira”, allora è come se quel gioco non fosse mai uscito.
Questo io lo avverto tantissimo lavorando in spazi non specializzati, dove spesso il gioco indie o più piccolo per farsi sentire ha bisogno di particolarità veramente uniche: magari è italiano, che un po’ di orgoglio nazionale si vende bene, magari è andato benissimo, è questo allora ci racconta di come la critica e la stampa ormai più che incanalare l’attenzione la cavalchino quando qualcosa è già diventato famoso.
Il tema infatti riguarda anche il ruolo della critica: a volte loda titoli estremamente interessanti, ma che poi floppano (ci sta, non sempe pubblico e critica sono allineati) e molto spesso parla di alcuni titoli solo quando già da soli hanno raggiunto la massa critica col passaparola. Ha ancora senso per spiegare e raccontare il mondo dei videogiochi a un pubblico bombardato di stimoli?
La stretta dei budget pubblicitari, la concentrazione dei flussi di traffico, la riduzione del tempo che l’utente medio dedica alla lettura: tutto spinge verso un’informazione più corta, più prevedibile, più facilmente monetizzabile. Alcune testate hanno reagito cercando rifugio negli abbonamenti. Altre hanno abbracciato i social media in modo quasi totalizzante, trasformando le notizie in thread, TikTok, clip da tre minuti.
Addio serendipità
In entrambi i casi, a sparire è qualcosa che non si può monetizzare subito, ma che resta fondamentale: la scoperta, la famigerata curatela che sarebbe fondamentale quando il rumore è così forte. Gli algoritmi ci offrono sempre meno una delle sensazioni più belle del mondo: la possibilità di inciampare in qualcosa che non si stava cercando, ma che ci cambia. Che era quello che ti capitava entrando in un noleggio di VHS, in un negozio di videogiochi o leggendo qualcosa in un contesto che non era regolato da meccanismi che devono fornirti sempre ciò che potrebbe piacerti.
Il rischio (la certezza), oggi, è che la stampa videoludica (uso questo termine in senso ampio) finisca per assomigliare a un supermercato con pochi prodotti in vetrina: solo quelli che vendono. Ma chi racconterà i giochi che non vendono, o non ancora? Chi avrà il tempo, o la libertà, di scrivere una recensione di diecimila battute su un gioco strano, rotto, meraviglioso, che non ha speranza di entrare in top search?
Questo impoverimento del racconto coincide con un altro fenomeno più sottile ma altrettanto significativo: giochiamo meno giochi. Secondo Newzoo, tra il 2021 e il 2024, il numero medio di titoli giocati per persona su piattaforme come Steam, Xbox e PlayStation è calato in modo costante. Non solo si scrive meno, ma si scopre meno.
Non è solo una questione di quantità, ma di varietà: il 50% del tempo di gioco globale è assorbito da una manciata di titoli, quasi sempre gli stessi — Fortnite, GTA V, Roblox, Minecraft, Call of Duty. Su Steam, il 34% dei giocatori ha giocato al massimo tre titoli in un intero anno. Su console, la quota è simile. Di contro, molto spesso ci sono titoli che macinano milioni di giocatori (magari per poco tempo, perchè vanno di moda su Twitch) ma vengono quasi del tutto ignorati dalla critica, soprattutto se sono giochi mobile.
E con l’arrivo di GTA IV aspettiamoci mesi in cui si parlerà, e giocherà, quasi solo a quello. O almeno questa sarà l’impressione.
Cambio di pelle
In altre parole, più giochi escono, meno ne giochiamo. E quel "meno" è un "meno di titoli diversi", non di tempo complessivo: giochiamo tanto, ma agli stessi giochi. Anche le nuove uscite più fortunate — Helldivers II, Palworld, Marvel Rivals — hanno faticato a ritagliarsi più tempo. Il resto resta sotto la soglia della visibilità. Letteralmente. Non voglio nemmeno impelagarmi nel discorso di quanti giochi finiamo.
E qui il cerchio si chiude: se non si gioca, non si scrive. Ma vale anche l’inverso: se non si scrive, non si gioca. Senza racconto non c’è scoperta, senza scoperta non c’è rotazione, senza rotazione non c’è varietà. Un mondo in cui si pubblicano meno articoli è anche un mondo in cui si vive meno l’ampiezza del medium. In cui ci si rifugia nel conosciuto, nell’usato sicuro, in quello che già sappiamo come funziona.
Quando mi avventuro fuori dalla mia bolla resto sempre stupito da quando cose che do per scontate siano invece spesso totalmente nuove per chi non segue i videogiochi veramente da vicino. C’è chi non sa cosa sia Minecraft, c’è chi “ah un nuovo Assassin’s Creed? E quando?”, “ah ma fanno un nuovo Doom? Ne hanno fatti altri dopo quelli vecchi?”.
Eppure, qualcosa si muove. Nonostante la fatica che a volte fanno le redazioni sono emerse nuove voci. Newsletter indipendenti. Podcast autoprodotti. Canali YouTube che parlano di titoli giapponesi introvabili o di mod gratuite sviluppate da tre studenti. Account che twittano (o ex-twittano) giochi mai usciti, sogni, mockup, fan art. Servirebbe una curatela della curatela per trovarli tutti e nel crollo del palinsesto ogni di noi coltiva il suo piccolo orto di voci e fonti che ritiene interessanti.
Anche se ormai anche qua la situazione è abbastanza dominata da pochi nomi molto grossi che attirano gran parte dell’attenzione e costruiscono attorno a se una galassia di persone che ritengono “degne” con la conseguente formazioni di gruppi e gruppetti, di clan e consorterie, in cui spesso è difficile trovare un po’ di varietà. Accanto ai siti più grandi, in cui ormai pochissime persone possono permettersi di scrivere e farne un lavoro, con compromessi enormi, si sono create piccole cordate di content creator che si tirano la volata a vicenda.
È il giornalismo che cambia pelle, come già è successo nella musica, nella critica cinematografica, nella divulgazione scientifica. Anzi, spesso lo fa prima, ho sempre pensato che il giornalismo videoludico fosse una sorta di canarino per le miniere del giornalismo mondiale: se accade, accade prima qua.
Ormai è un settore non più centralizzato, non più stabile, ma ancora vivo. Vivo a modo suo. Dentro Discord. Dentro Substack. Dentro la fatica quotidiana di chi continua a raccontare, anche senza garanzie. E, spesso, senza soldi, a meno che proprio tu non abbia sia il coraggio sia i numeri per aprirti un Patreon (e io oggi non ho né l’uno né gli altri).
Il punto, forse, non è salvare il giornalismo videoludico. Ma capire che sta cambiando. E decidere se vogliamo farne parte. Per raccontare anche quello che non ci porta clic. Perché il valore di un gioco non sta solo nei numeri. Sta nella possibilità di parlarne.
E magari, un giorno, anche di giocarci.
Link?
Di Clair Obscur ho parlato anche in Rai.
La mia nuova fissa estetica: Trench Crusade.
E poi su N3rdcore si parla di Atelier Yuma.
Capitan Troll sta invece continuando a fare vignette sulla seconda stagione di The Last of Us.
E infine i compari di questa newsletter con cui prima o poi trovremo il modo di collaborare meglio.