Diamo al pubblico solo ciò che vuole o il pubblico vuole solo ciò che diamo?
O di come la produzione di notizie e articoli segua logiche simile a quella delle produzioni mainstream di videogiochi, film e serie tv: prudenza e stare nel flusso.
La puntata di oggi potremmo considerarla un sistema binario che ruota attorno a due poli, da una parte c’è l’articolo di Andrea Daniele Signorelli intitolato “Il Metaverso non esiste”, il cui contenuto potete intuire, e dall’altra una interessantissima riflessione di Kyle Kukshtel chiamato “Game Design Mimetic”, che si occupa di analizzare gli effetti del continuo guardarsi indietro nel Game Design, che di riflesso ricorda il continuo guardarsi indietro della produzione culturale in generale.
Perdonate fin da ora i refusi, sono di fretta e secondo me ce ne sono.
E questo indipendentemente che sia la terza volta in cui mi viene venduto The Last of Us a prezzo pieno (e non qua non si discute se sia legittimo, in questo mi sento vicino alle posizioni di Valentino Cinefra: c’è una serie tv in uscita e un po’ di gente con la PS5 che non vede l’ora di rigiocare quello che, per certi versi, è un gioco molto diverso da quello che abbiamo giocato) o in cui mi trovo in sala un Top Gun: Maverick che non fa che fare i conti con l’originale o Jurassic World: Dominion che va a scongelare il cast del primo film.
Tutte queste cose sono collegate, almeno credo. Perché? Perché si basano in un certo senso sulla medesima mentalità che regola la produzione di notizie e quella di altri contenuti: giocare sicuro, minimizzare i rischi, dare in qualche modo al pubblico quello che pensi il pubblico stia cercando e produrre contenuti che ti garantiscano soldi, click, attenzione.
Ha un minuto per parlare di nostro signore Metaverso?
Se non vivete sotto un sasso e leggete in maniera anche saltuaria le pagine dei principali quotidiani e non dedicati alla tecnologia probabilmente avrete letto qualche volta la parola METAVERSO. Questa parola viene dal 1992 e nasce in “Snow Crash”, romanzo cyberpunk di Neal Stephenson e in qualche modo è la sua versione del cyberspazio di Gibson, una realtà parallela virtuale dove le persone costruiscono e si muovono come se fossero nel mondo reale, una sorta di internet in cui camminare fisicamente grazie a un misto di realtà aumentata e virtuale.
Questo concetto ha sonnecchiato per circa trent’anni, poi Tim Sweeney ha cominciato a tirarlo fuori in riferimento al futuro di Fornite (ne avevo scritto, ma c’è un paywall adesso) ed è definitivamente esploso quando Facebook, con una mossa che voleva in qualche modo cercare di contrastare le statistiche di crescita non proprio felici, ha cambiato il suo nome in Meta e ha assunto un botto di gente per sviluppare “il metaverso”.
Come dice bene Signorelli da quel momento ogni azienda ha cercato in qualche modo di posizionarsi all’interno di questo “spazio di attenzione” iniziando a dire di essere pronta a entrare nel metaverso, qualsiasi cosa voglia dire, spendendo una discreta quantità di soldi e lanciando un numero abnorme di comunicati stampa.
“Ogni giorno mi sveglio e so che nella mia casella email ci sarà almeno un comunicato stampa di un’azienda che annuncia il suo “ingresso nel metaverso”.
E vi assicuro che è esattamente così. La mia casella di posta riceve almeno due o tre comunicati stampa al giorno di aziende o personalità che “entrano nel metaverso” e l’articolo spiega benissimo perché tutta questa roba sia, fondamentalmente, una grande speculazione, una vendita di fumo in cui aziende, agenzie di consulenza che improvvisamente sono diventate esperte di metaverso e sedicenti architetti o progettisti del metaverso si sono buttati a pesce, nonostante non ci sia praticamente niente, se non cose che conoscevamo già.
Ma sei in trend?
A questo caravanserraglio contribuiscono ovviamente anche i siti di informazione e lo fanno per due motivi: bisogno feroce di intercettare in qualche modo parte dei soldi che stanno girando sull’argomento e bisogno di stare nel flusso delle informazioni che in qualche modo il pubblico desidera.
E qua entra in gioco un grande alleato, se vogliamo chiamarlo così, dei giornalisti di oggi: Google Trends.
Google Trends è un servizio di Google che mostra quali sono le parole più cercate del momento. Per farla breve, le cose di cui dovresti scrivere se vuoi farti leggere e le cose che finirai per continuare a scrivere per evitare che vengano lette da altre parti. È ormai una parte essenziale della cosiddetta “agenda setting”, ovvero, semplificando, una sorta di circolo vizioso/virtuoso in cui i media parlano di ciò che la gente vuole sentire ma la gente parla di ciò che i media gli mettono sul piatto ogni giorno.
Se analizziamo la parola metaverso possiamo vedere l’impennata avuta a Ottobre dell’anno scorso, una crescita quasi costante e poi un assestamento. Notate anche come ci sia stata una impennata anche per gli argomenti correlati: NFT, Decentraland (di cui ho già scritto, cercando di spegnere gli entusiasmi), Criptovaluta ecc.
Google Trends è fondamentale per massimizzare l’efficienza delle scelte di ogni redazione, ma ovviamente porta con sé il rischio di appiattire completamente l’offerta di notizie. Se c’è interesse nella parola metaverso, se tutte le aziende vogliono essere in quel trend e sfruttano la parola metaverso, dando mandato ai proprio uffici PR di tirare dentro il metaverso in ogni modo e se ogni giornalista, soprattutto freelance, ha più chance di essere pubblicato se si parla di metaverso di cosa finiremo per parlare: di metaverso, ovvio.
O di Stranger Things, o dei videogiochi più importanti del Summer Game Fest, o di quella polemichetta che tiene banco oggi e così via. Devi stare nel flusso, perchè se esci dal flusso ti leggeranno in pochi, questo lo so bene. Però dall’altra parte è anche un meccanismo che premia solo i più efficienti e i più grossi perchè di quel flusso se ne prenderanno la parte più grande, lasciando agli altri le briciole. E qua potremmo aprire una discussione su quando stare nel flusso e quando no, ma magari la prossima volta.
Una piccola precisazione: per quanto anche io abbia a volte parlato di metaverso, per fortuna non mi sono mai sentito forzato a parlare solo di quello, ma mi pare evidente, guardando anche i colleghi, che in tanti ormai abbiano messo le tende nella parola metaverso. Va anche detto che, per fortuna, la situazione sembra essersi un po’ assestata rispetto a qualche mese fa.
Una cultura che si ferma lentamente
Tutto questo è in qualche modo legato all’articolo che citavo all’inizio, che ci mostra come questa situazione non sia limitata al mercato delle notizie, ma riguardi un po’ tutto il panorama globale, in particolare quello della cultura pop, che applica le stesse dinamiche di “giocare sul sicuro” quando produce qualcosa di nuovo.
La nostalgia e il recupero del passato non è un concetto nuovo, non lo scopriamo oggi, ma oggi siamo senza dubbio arrivati a un momento in cui quel fenomeno ha raggiunto vette così alte da ripiegarsi lentamente su sé stesso.
Tra l’altro mi rendo conto oggi che in un certo modo parlavo proprio di questa cosa quando dicevo che non riusciamo più a immaginare città del futuro che escano dalla dicotomia distopia/utopia.
E ora che ci penso, se proprio devo tirarmela, questa roba del presente eterno e dell’impasse un po’ la discutevo in questo vecchio articolo di N3rdcore nato dalla scoperta di Torn di Natalie Imbruglia come cover.
L’articolo di Kukshtel è molto lungo, ma ve lo consiglio tantissimo, e affronta il problema soprattutto dal punto di vista del game design e ci mostra come i videogiochi siano in una pesante fase di stallo creativo per una serie di motivi (sì, anche il mondo indie), ma offre ottimi spunti di riflessione per ciò che produciamo sui social media e sulla produzione culturale in generale, che ormai è diventata, quella sì, qualcosa di meta, perché tendiamo a riprodurre ciò che ha funzionato, sperando in qualche modo di replicarne il meccanismo.
Questo inevitabilmente, con buona pace del cinema e dei videogiochi indipendenti, (ma potrei dire lo stesso della musica, credo) porta a una stagnazione, a quella che Mark Fischer definiva “la lenta cancellazione del futuro” in un mondo in cui “la cultura si è fermata”. E forse si è fermata anche nelle notizie.
Tutto ciò che produciamo dev’essere in qualche modo appetibile al pubblico e quindi finiamo per replicare sempre gli stessi schemi, finché la gente non si stufa. Quante volte dobbiamo ancora replicare lo schema di Lone Wolf and Cub del viaggio in cui un adulto e un bambino imparano l’uno dall’altro? Quante volte dobbiamo scrivere di metaverso? Quante robe di Star Wars dobbiamo spiegare male? Quante volte dobbiamo usare l’archetipo degli opinionisti scomodi o dei Gramellini di turno? Quante notizie sulle cosplayer dobbiamo dare prima che tutto questo si fermi, pur con la lentezza pachidermica di un transatlantico a motori spenti che avanza solo per inerzia?
Citando l’articolo:
“Ciò che già funziona” è una lente fondamentalmente conservatrice e nostalgica attraverso la quale vedere la produzione culturale. Guardare "ciò che già funziona" rifiuta un'idea o un potenziale di progresso, e invece restringe l'ambito delle possibilità di un mezzo di essere solo capace o rimediare ai suoi più grandi successi. Innalza le conquiste passate come utili barometri del successo presente […] Il passato qui non è visto come passato, ma invece come la metrica con cui tenersi direttamente contro le considerazioni per il presente. La costante visione rivolta all'indietro come la rubrica con cui creare il futuro agisce come un meccanismo di collasso per le possibilità”.
E questo si lega anche alla figura dei “content creator”, del giornalista come influencer e alla notizia come parte di un qualcosa di più grande in cui la notizia è stessa è solo parte del processo. Quando io lavoro ormai devo anche mostrare quello che c’è dietro il mio lavoro. I press tour, le interviste che sto per fare, i backstage, gli eventi stampa, i convegni, i corsi. La stessa cosa fanno praticamente tutti i miei colleghi e colleghe per generare un “content” che serve a produrre articoli e altro content.
Ogni persona che appartiene in qualche modo al contesto culturale di cui vuole far parte è chiamato ogni volta a partecipare al rito dell’opinione, del contenuto, del dibattio, del film visto, della reaction, seguendo i trend.
Insomma come al solito il problema è il capitalismo.
E quindi, anche per oggi “Here comes the content”, come canta Bo Burnham.
Come sempre, se vi va di parlarne o avete suggerimenti, sono qua.
Qualche link, come al solito
Un saggio su Cronenberg e il Body Horror? Sì dai.
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