E tu, sei andato in Goblin Mode?
Certo che se alla fine del 2022 rivendichiamo il diritto di fare schifo qualcosa dev'essere andato parecchio storto.
(Per prima cosa, scusate il ritardo, ho avuto casini questo sabato mattina)
L’avrete sicuramente sentito da qualche parte questa settimana, anche perché praticamente tutti hanno dato la notizia: la parola dell’anno dell’Oxford Dictionary è Goblin Mode.
Cosa vuol dire Goblin Mode? Comportarsi esattamente come un goblin, ovvero fottersene delle norme sociali, del buon gusto e della vita plastificata che vediamo sui social media. Riempire un letto di briciole di fonzies mentre guardiamo serie tv, uscire con una tuta bucata per prendere qualcosa di veloce al supermercato sotto casa, isolarsi, non puntare al continuo miglioramento di sé stessi. C’è chi arriva addirittura a camminare a quattro zampe per casa e in generale prende decisioni di impulso o per il gusto di seminare il caos.
Penso che sia il contraccolpo emotivo post-pandemico che abbiamo messo fischiettando sotto il tappeto finora.
In poche parole, una normalissima fase nella vita, ma che dico, in un anno di qualunque freelance.
Le spiegazioni di come mai Goblin Mode sia così di successo sono abbastanza chiare: è l’energia con cui abbandoniamo questo 2022 dopo che ci siamo serenamente rotti di un continuo stato di crisi e situazioni stressanti, che siano macro, come guerre o pandemie, o micro, come l’aumento della bolletta, il lavoro che traballa, il tizio che non accetta il pagamento col POS perché con la Meloni pensa di comandare lui.
Mi viene da pensare che in qualche modo sia legato anche a una società fatta di regole non scritte sempre più complesse in cui è un attimo finire alla gogna per qualcosa che si è detto, anche in buona fede. No, non sto dicendo che “non si può più dire niente” ma va riconosciuta la giustamente aumentata complessità di certi contesti.
Ma se vogliamo è anche il rigettare i modelli di perfezione dei social media che vengono smentiti ogni giorno, che sia un reel motivazionale del solito economista improvvisato che ti dice che sei povero perché non ci credi abbastanza o la mamma perfetta col marito perfetto e i figli perfetti.
Sappiamo bene che quella che ci arriva dai social è spesso una realtà filtrata. Intendo letteralmente filtrata, con soluzioni per rendere la pelle perfetta, gli occhi luminosi e così via. Ma anche filtrata da tutte quelle narrazioni personali dove sembriamo tutti e tutte sempre impegnati in cose bellissime.
In fondo andare in “Goblin Mode” non è altro che fare un po’ come i tanto vituperati “Hikikomori” o come i nerd di una volta. Ne è la sua poppizzazione, una sorta di processo di accettazione del mainstream in cui si riconosce in qualche modo il nostro diritto a fare schifo. La sfumatura che lo rende differente dall’isolamento degli hikikomori però c’è: sembra un gesto più sprezzante, volontario, attivo, con venature di follia.
Basta, mi sono rotto, non è che mi isolo perché sono triste, mi isolo perché mi avete rotto il cazzo. O qualcosa del genere.
Per chi fa il mio lavoro è abbastanza normale attraversare momenti di questo tipo. Voi lo chiamate Goblin Mode io lo chiamo burnout e può avere cause e facce molteplici, dal renderti conto che no, non ci sarà un avanzamento di carriera all’essere stanchi di fare del personal branding nell’era degli algoritmi. Oppure banalmente lavori isolato così tanto tempo che non ti accorgi di non aver cambiato maglietta per giorni.
Il risultato finale però è sempre il ritrovarsi nella parte più bassa di una sinusoide dell’umore dove l’unica risposta sarà “ma sai cosa? Fottetevi”.
Ed è bello, bellissimo, come mangiarsi una cheesecake intera a mani nude, addormentarsi in spiaggia mentre tutti ti invitano a giocare a beach volley o passare di fronte alla vostra serie tv preferita una bella giornata di sole.
Il Goblin Mode mi ha riportato un po’ ai primi tempi del lockdown, quando per me era assolutamente normale lavorare molto a casa e mettevo in guardia gli altri dalle sirene del lavoro casalingo e quelle sirene sono esattamente il Goblin Mode. E sono sicuro che se ci pensiamo bene a tutti è capitato di affrontare un momento di questo tipo (magari chiamandolo burnout) prima d’oggi.
Però non c’era ancora l’etichetta giusta.
Ero partito pensando questo pezzo come una sorta di messa in guardia dai rischi del Goblin Mode, ma mi venivano fuori riflessioni da trombone antipatico. In fondo tutti sapete benissimo che lasciarsi troppo scivolare nel caos comporta dei rischi, il primo dei quali è che vi potrebbe piacere troppo per tornare indietro, e non sono tipo da discorsi motivazionali.
Quindi, per schivare il paternalismo, vediamola così: ci avete fatto caso che riusciamo a identificare qualcosa solo quando abbiamo una parola. In Italia c’è anche una postilla: meglio se la parola è inglese.
D’altronde l’inglese è lingua viva, proteiforme, incline al neologismo e alla definizione istantanea di qualcosa con immagini colorite. Per le etichette è perfetta.
Tutto sappiamo che la gente fischia dietro alle ragazze ma è molto più comodo se possiamo usare “catcalling”, conosciamo bene i personaggi che devono sposare ogni possibile causa sociale per far capire che sono persone sensibili loro, ma vuoi mettere se puoi dargli del “woke” o dire che fanno “virtue signaling”? Parlare del corpo degli altri è da stronzi, ma “bodyshaming” suona meglio.
Ma guarda ‘sto sfigato… no scusa, sono un nerd!
È strano, ma neanche troppo, perché ci ricorda il potere delle parole, alla faccia di chi dice che non ne hanno o che dovremmo lasciarcele scivolare addosso. Le parole sono totem attorno a cui raccogliere una tribù, ci forniscono identità o possiamo usarle per distanziarci dagli altri.
E quindi non è che ho passato un mese giocando ai videogiochi e facendo poco altro, no è il Goblin Mode, la mia fase di rifiuto dei dettami imposti da una società che mi vuole perfetto e performante.
Suona molto meglio no?
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Che anche noi freelance, noi gente che scriviamo abbiamo bisogno di parole che ci aiutino a dire chi siamo. A sostenere questa maledetta (o benedetta) autonarrazione di cui parlavo tempo fa.
E anche Goblin Mode non scappa da questo processo perché alla fine TUTTO è content, anche lasciarsi andare, è l’affermazione della nostra libertà, basta metterci sotto la musica in trend.
Dunque non sono un freelance e basta, sono un divulgatore, un esperto di cultura pop e ti direi anche un moderatore (che presentatore fa subito Mike Bongiorno), anzi uno storyteller!
Dunque si è Goblin Mode, ma perché è colpa di una società falsa mentre io sono vero! Andare in terapia? Naaaa.
Dunque sono un nerd? Forse, ma ormai è una parola svuotata del suo significato. Che poi è il rischio con le parole che funzionano, le ripetiamo così tanto che alla fine sbiadiscono come vecchie magliette che non ci piacciono più.
Tipo… brrrrr… resilienza.
Per ulteriori spiegazioni e chiarimenti vi rimando a Il Post.
Linkini per goblin
Su La Bussola D’oro abbiamo parlato di regali di Natale
E anche su N3rdcore c’è una bella lista
Un bel pezzo-guida-pamphlet sul sindacalismo nei videogiochi.
Persino Sallusti ha delle remore, ma evidentemente non bastano.