A che punto sei della enshittification?
Ovvero, come tutte le cose prima o poi finiscono in me...ra fatale illusione che le cose potessero andare bene.
La mia parola della settimana è senza dubbio “enshittification”, un neologismo di quella bellissima lingua che è l’inglese, sempre pronta a trovare parole nuove per situazioni nuove. Situazioni di merda, in questo caso.
L’enshittification che potremmo tradurre come “smerdamento”, “immerdificazione”, “immerdazione” o come preferite è un fenomeno ciclico di quasi tutti i fenomeni di internet. Portali, Social Network, Content Creator e, per certi versi, è un fenomeno che interessa quasi tutto ciò che riguarda la produzione umana.
La parola è balzata agli onori della cronaca per un articolo scritto da Cory Doctorow, che ha avuto la lucidità di mettere per iscritto con ottimi esempi il processo dell’enshittification. Tanto che viene da chiedersi “come mai non ci abbiamo pensato prima?”.
Una giostra che va
Il ciclo della enshittification è semplice: prima una piattaforma cerca di attirare più utenti offrendo un servizio utile, efficiente, spesso in perdita o con guadagni minimi. Pensate ai primi anni di Facebook, che era un modo efficiente per rimanere in contatto con amici, Amazon che offriva un servizio di e-commerce efficiente ed economico, Netflix che offre show interessanti a poco prezzo e se ne frega se condividi la password.
Di solito questa è anche la fase in cui la piattaforma, così facendo, falcia la concorrenza e accentra su di sé una serie di servizi e attenzioni.
Poi, una volta che la base utenza è ampia e legata alla piattaforma dai benefici ottenuti, inizia a vendere la presenza di questa utenza a terzi e agisce in posizioni di monopolio, o quasi. Adesso tutti compriamo e Amazon ecco che Amazon propone ai venditori (che sono costretti a starci per vendere) di spendere soldi per stare in testa nelle ricerche. E lo stesso fa Google. O anche Facebook quando dice alle aziende, che prima sono arrivate su Facebook per raggiungere facilmente l’utenza, che possono pagare per raggiungerne di più. Tenendo di fatto in ostaggio tutti i link esterni.
La terza fase è quella in cui il sistema è ormai immerdato. L’utenza si lamenta, ma non se ne va perché comunque ha dei motivi per continuare a stare nel sistema, visto che esistono pochissime alternative, i venditori sono incazzati perché devono spendere sempre di più per ottenere sempre di meno e gli investitori sono incazzati perché i ricavi non sono più quelli di un tempo.
E allora i sistemi cosa fanno? O cercano di tornare a quello che ha funzionato all’inizio, incasinando ancora di più le cose, o cercano di sopravvivere in qualche modo così, con un sistema di merda, ma a cui comunque tanta gente torna per abitudine, mancanza di altro, ricambio dell’utenza eccetera.
Il ciclo è servito: prima il surplus lo usi per attirare il pubblico, poi lo usi per attirare i fornitori, poi lo usi per pagare gli investitori, poi tutto va in merda.
Sono sicuro che se fate due conti tantissime cose a cui avete preso parte hanno subito questo processo. Anche aziende che inizialmente erano ottimi posti di lavoro e col tempo si sono dovute piegare a logiche che le hanno resi inferni.
Anzi, possiamo dire che questo ciclo è presente su internet ben prima che arrivassero i social network.
Giornalismo compostabile
Anche interi settori, come il giornalismo, soprattutto quello “pop” (o poop, lol, ok scusate). E qui arriviamo al punto. Anche noi che scriviamo possiamo “immerdarci”. Per certi versi il ciclo dell’imborghesimento: nasci con idee interessanti, ottieni la fama e per confermare la fama “ti vendi”.
Il meccanismo descritto da Doctorow mi ricorda tantissimo molte cose che mi sono successe. Probabilmente ne ho già scritto ma visto che mi piace lamentarmi parliamone ancora.
Declinare il processo al mondo dell’informazione è abbastanza semplice: tutti i siti partono con belle intenzioni e paghe puntuali, attirando a sé giornalisti soddisfatti che scrivono bene e di conseguenza un pubblico interessato.
Poi però di solito succede che i conti non tornano, si inizia a tagliare, la pubblicità aumenta, la qualità cala. Però il pubblico va tenuto agganciato, perché senza il pubblico non prendi manco quei pochi soldi che hai. Quindi spingi su tecniche e contenuti che “sporcano” il sito, ma funzionano. Publiredazionali, articoli con toni morbidi verso gli investitori, clickbait e polemiche.
Poco importa se la gente dice che sono una merda. Qualcuno leggerà e una buona seo con gente sottopagata che sforna a raffica notizie spazzatura vale dieci giornalisti competenti se il tuo business model è far vivacchiare un sito, tenendolo in piedi come si fa con alcune figure politiche prima che si sia trovato un sostituto, a botte di adrenalina, stimolanti e defibrillatore. L’importante è vendere agli inserzionisti i numeri. I numeri non puzzano.
Tutto può andare avanti così per anni ben prima di chiudere, a meno di grosse crisi, bisticci legali o Bezos che decide improvvisamente che il Washington Post non ha bisogno di una sezione che si occupi di videogiochi (e questo apre delle domande sul fatto se veramente il mio lavoro sia necessario, ma preferisco non farmele oggi).
Ma non solo i siti e le aziende possono immerdarsi: anche il nostro percorso può subire questo genere di trattamento. Soprattutto se siamo content creator.
Banalmente: quanta gente sui social ha fatto successo e poi piano piano ha dovuto cambiare per poter rimanere appetibile per gli investitori, cercando di tenersi stretto il pubblico?
Negli ultimi anni inoltre sono fioriti moltissimi progetti di “social journalism”, testate senza neppure un sito che producono reel, video, caroselli su Telegram pieni di notizie. Sono idee senza dubbio interessanti, vivaci, piene di belle e giovani firme, ma sono tutte idee destinate a perdere.
Faccio mia la bellissima metafora di Doctorow: i social network sono come luoghi di lavoro dove se sbagli qualcosa trattengono dei soldi dalla tua paga, ma le regole che potresti infrangere non le conosci e possono cambiare improvvisamente.
E non devi conoscerle, sennò il capo non guadagna.
Così come non guadagnerebbe Facebook se il post che metto sulla pagina Facebook di N3rdcore arrivasse a tutti gli iscritti e non solo a 60 persone su più di 8000 perché io non spendo soldi.
Così come chi è su TikTok non dovrebbe sapere che c’è uno strumento per rendere virale qualsiasi contenuto, alla faccia degli algoritmi precisi, così che quel creator sia portato a concentrarsi su TikTok e poi magari portarlo a spendere per mantenere quei numeri gonfiati artificialmente.
Le piattaforme sono quindi favolosi strumenti di lancio, ma non sappiamo quando ci verrà tolto il carburante, sono strumenti di cui non abbiamo il controllo. Sotto questo punto di vista il caro vecchio blog non lo batte nessuno, con tutti i limiti del caso.
E poi tocca a noi
Se penso poi alla mia carriera di giornalista, pur con tutti gli avanzamenti e i progressi professionali fatti in questi anni, non posso non sentire una strana puzza.
Ho iniziato a fare il giornalista sapendo che ci voleva la gavetta, ma poi qualcosa sarebbe arrivato.
Poi sono andato avanti, di articolo pagato in articolo pagato, pensando che poi qualcosa di meglio sarebbe arrivato. Intanto il sistema marciva, eroso da un’economia basata sul click.
E io stesso, pur di stare nel giro, accettavo compromessi, facevo buon viso a cattivo gioco, logorandomi mentalmente.
Oggi sono perfettamente conscio di tutti i limiti e delle miserie presenti nel mio lavoro, ma in un modo o in un altro sono qua, perché ho 41 anni e per quanto possa reinventarmi la mia carriera si basa sullo scrivere, sul comunicare. Per quanto schifo mi faccia ancora qualche articolo su Facebook lo metto, perché non si sa mai.
E quindi finora mi sono turato il naso e penso che continuerò a scrivere, mi piace troppo farlo, mi piace troppo comunicare. Ma quando la merda sarà arrivata al colletto vorrò ancora fare il giornalista?
E se quella col giornalismo fosse una tipica relazione tossica in cui fai passare le briciole di attenzione per amore?
Linkini finali che non puzzano
Quanto è bello il terzo episodio di The Last of Us? Ne scrivo qua.
Una bella piattaforma di giochi da tavolo digitali: Teburu.
La questione J.K. Rowling di cui abbiamo parlato settimana scorsa è tornata sui siti di critica videoludica e lo ha fatto in modo interessante. Vi linko le opinioni su Game Division (che linka anche Heavy Meta) e Multiplayer ma anche Spazio Games. Attenzione perché i commenti sono… beh diciamo che per fortuna molta gente che gioca ai videogiochi non è così.
Mi pare molto in tema segnalarvi l’archivio della cacca.
Mantellini mi piace molto e il suo “Invecchiare al tempo della rete” mi sembra una di quelle cose che avrei voluto scrivere io.