Finti ricchi e finti poveri
Analizziamo assieme le due principali narrazioni con cui freelance e content creator raccontano le proprie vite
Oggi voglio legarmi alla discussione che vedo crescere attorno alla figura dei content creator e in particolare a quelli che “mettono in scena” la propria vita, presentando scenari perfetti e grandi successi dietro i quali si nasconde una auto narrazione creata a bella posta per trasformare la propria vita in una telenovela ad uso e consumo del pubblico
Sono storie che mettono a fuoco un tema scottante di un certo tipo di content creator, quelli che fanno soldi su famiglie felici e, soprattutto, sui minori, ma dice anche tanto su di noi, ovvero su un pubblico che è disposto ad accettare in modo acritico le narrazioni, anche quando l’evidenza dei fatti le smentisce. Perché tutto sommato ci piace credere alle storie che ci vengono dette, perché in qualche modo ci sentiamo parte di quel percorso, da spettatori.
E i freelance, i giornalisti e in generale chi lavora con la cultura pop può sfruttare tutto questo?
Certo che sì, lo facciamo sempre tutti i giorni. Ovviamente in una scala di grigi che va dalla finzione totale al raccontarsi per quel che si è senza troppi problemi.
Amami sono figo
Non vi sto raccontando chissà quale verità scomoda, ognuno di noi a un certo punto della nostra vita ha dovuto fingere o aggiustare la verità, soprattutto in campo lavorativo. Lo impari scrivendo il primo curriculum.
Per molti questo tipo di approccio diventa una costante, seguendo il grande adagio del “fake it until you make it” ovvero il fingersi ciò che non si è finché non si arriva nella posizione di esserlo veramente. Nell’accettare lavori per i quali magari non si è ancora pronti, nel mostrare una confidenza in sé stessi che magari non avrebbe senso di esistere considerando che magari stiamo muovendo i primi passi in un settore, nel nascondere la paura sotto il tappeto sperando che nessuno se ne accorga.
È una tattica sensata? In parte sì, finché, esattamente come vedremo per l’altro lato della medaglia, non si sfocia nel ridicolo. Mostrare sicurezza è importante, soprattutto all’inizio, perché in fondo nessuno vuole che gli venga ricordato di aver dato del lavoro a un principiante, lo sanno benissimo, non importa sottolinearlo.
Esattamente come nei rapporti amorosi, non importa proprio essere letterali, perché si spezza la magia del momento, basta dire “vieni su a bere qualcosa?”, entrambe le parti sanno ciò che vuole dire.
Tuttavia, bisogna trovare la giusta misura. Io, ad esempio, tendo ad essere troppo cauto, a mettere le mani avanti, seguendo la grande tradizione all’autosabotaggio che mi accompagna da sempre, ma c’è anche chi si trova dalla parte opposta dello spettro e si avventura in acque troppo profonde facendosi male.
Mi è capitato in passato di relazionarmi con persone che volevano scrivere per N3rdcore dichiarando di avere esperienza di scrittura e capacità di espressione che poi palesemente non c’erano, persone che sostenevano di essere grandi professionisti e sono spariti dopo due articoli senza manco spiegare il perché (smettere di scrivere va benissimo, ma la professionalità si vede nel modo in cui lo fai e in cui rispetti gli altri) e sono sicuro che anche io per altri sarò stato all’inizio nella medesima posizione, perché volevo così tanto scrivere da essere pronto a dire sì e sperare di riuscirci davvero.
Poi c’è un altro aspetto molto buffo: quello delle cariche altisonanti e dei leader del settore.
Quanti siti di videogiochi o di cultura pop ci saranno al mondo o solo in Italia? Ben più delle persone che li vogliono leggere. Eppure, siamo tutti “leader nel settore” o “la tua fonte di informazione su tutto ciò che riguarda” con gente che utilizza nomi altisonanti come “direttore editoriale”, “caporedattore”, ho visto anche dei CEO qua e là. Come se fosse la carica a renderci importanti.
L’effetto che ne ricavo è lo stesso che mi danno quei tristi personaggi che gravitano attorno ai corsi di marketing e motivazione e flexano soldi, auto di lusso e così via.
Che ci porta al terzo aspetto buffo del “fake it until yuo make it”, ovvero quando mentiamo non solo a chi ci segue ma anche a noi stessi. Perché nessuno vuole ammettere che la carriera del giornalista (nel senso più ampio del termine) sia un lavoro spesso mal pagato, complicato, perennemente sull’orlo del fallimento e di solito puntellato da secondi lavori, parenti e famiglia.
E quindi, come le mamme delle famiglie perfette, postiamo soprattutto i press tour, i regali, gli hotel dove ci fanno alloggiare, gli oggetti costosi che dobbiamo recensire, le interviste che facciamo. Ricordo che uno tizio anni fa sviluppò proprio un odio di classe verso di me perché dalla mia vita ne usciva fuori una persona che sicuramente era ricca e non dovevo permettermi di lamentarmi delle condizioni dei freelance, perché non mi riguardavano. E tutto questo senza neanche spingere troppo su chissà quale immaginario di successo.
Però sì, i primi a cui dobbiamo mentire siamo noi stessi, perché siamo anche i primi e le prime da motivare quando facciamo scelte che ci fanno paura. Anche perché facciamo lavori fragili e non possiamo permetterci di esserlo anche noi.
Il problema è quando dopo anni e anni di “fake”, ancora non ce l’abbiamo fatta, magari siamo in mezzo al guado, e ci tocca continuare a farlo, perché se crolla la maschera crolliamo noi.
Amami sono povero
Il rovescio di questa narrazione è ovviamente l’esatto opposto, quello che porta personalità in posizioni apicali a cercare di apparire molto più vicine alla “gente comune” di quanto non siano.
Sono spesso narrazioni che ci raccontano di incredibili crescite partendo dal basso, di piccoli progetti che diventano enormi, di “non avevo niente fino a poco tempo fa ed eccomi qua”. Per certi versi si avvicinano a quella storia della studentessa di medicina tanto brava da laurearsi a tempo di record, come una ragazza ricca che dà esami a porte chiuse fosse lo specchio dell’università e non l’ennesimo caso particolare che non può essere preso per il tutto.
Quello che chiamo “pauperismo social” è un classico di un certo tipo di content creator che devono comunque bilanciare l’ostentazione con la narrazione della persona della porta accanto. Perché più dici di essere partito in basso più grandi saranno i tuoi risultati.
Vi faccio un esempio.
Qualche anno fa Hideo Kojima, un famoso sviluppatore di videogiochi, mi viene da dire forse uno dei pochi nomi riconoscibili fuori dalla stretta cerchia di appassionati, si stacco da Konami, il publisher per cui aveva lavorato per anni, creando la saga di Metal Gear Solid, per fondare il suo studio, la Kojima Productions.
Da quel momento il buon Hideo ha spesso fatto notare come se ne fosse andato da Konami con niente in mano se non le sue idee, di come avesse iniziato in un piccolo ufficio e col tempo aveva accresciuto sempre di più il suo studio personale. Io a Kojima gli voglio anche bene, lo rispetto come autore, però questa narrazione l’ho sempre trovata ridicola, perché era palese che un nome come quello di Kojima avrebbe raccolto investimenti il momento dopo essere uscito dalla porta dei suoi vecchi uffici.
È la stessa che vedo in molti progetti, che in qualche modo fanno leva sullo storytelling di “eh chi poteva immaginarlo!”. Immaginate un calciatore famoso che molla una squadra per fondare la sua scuola calcio, si trova sommerso di richieste di iscrizione per poi dichiararsi sorpreso, è un po’ ridicolo no?
Eppure, funziona così.
Funziona così per i creator, che così possono continuare a ricevere donazioni e affetto dal pubblico, perché nessuno forse vorrebbe dare cinque euro al mese a una persona che ne guadagna 10.000 in una settimana con una campagna pubblicitaria e quindi è meglio mantenere l’estetica e la narrazione del tizio che ti parla dalla cameretta o di quello partito dal niente.
Ma funziona così anche per i freelance? Beh, sì, perché anche noi dobbiamo raccontarci, al pubblico e ai potenziali datori di lavoro. E se c’è chi magari apprezza una narrazione di successo ostentato è senza dubbio altrettanto efficace la storia di quello che ce la fa dal basso, senza troppi aiuti ne conoscenze, solo con la forza della sua abilità.
Oppure siamo i cantori incompresi di questa epoca, gente che racconta “la verità” contro la finzione di un mondo cattivo e votato al commercio, mentre noi siamo i duri e puri che provano a fare qualcosa di diverso. Una narrazione a metà tra il vittimismo e lo snobismo che in qualche modo arriva dal mondo della letteratura, degli autori sofferti che hanno sempre qualcosa da dire e non si piegano alle logiche commerciali, quando invece sono le logiche commerciali a ignorarli.
Che magari nei nostri racconti c’è tanto di vero, altrimenti la bugia sarebbe troppo palese. Io, ad esempio, non ho fatto chissà quale scuola di giornalismo e di sicuro non avevo agganci e amicizie, però non è mai veramente così. Perché c’è sempre una parte della storia che raccontiamo meno, come la possibilità per anni di fare un lavoro sottopagato grazie al supporto della famiglia, o la botta di fortuna che ci ha dato quella possibilità in più.
Sono una persona di successo? Qualcuno direbbe di sì, io non ne sono così sicuro, soprattutto se guardo la mia capacità di acquisto, ma ogni volta che lo dico rischio di apparire falso e finto umile come quelli contro cui punto il dito. Dove è il confine tra la sindrome dell’impostore e una umiltà ostentata per rendere i successi più sfolgoranti? Non lo so.
Poi è ovvio che tutti e tutte costruiamo, ci sbattiamo e quello che otteniamo alla fine non è mai del tutto frutto del caso, tutti fingiamo, ci diamo grandi pacche sulle spalle sperando che ce le diano anche gli altri, tutti sappiamo che in fondo piangerci addosso non ci rende più attraenti, a meno che di non poterla trasformare nella coraggiosa narrazione di chi ce l’ha fatta contro tutti e tutti. I famosi “hater” che tutti dicono di avere a cui tutti si rivolgono quando hanno un briciolo di successo.
Quello che posso dirvi è: non fatevi buttare giù dalle narrazioni di successo, nascondono sfigati come voi, non credete troppo alle narrazioni pauperistiche, nascondono gente che vuole esaltare i propri successi nascondendo da dove è partita.
E tu, che narrazione di te hai scelto?
Linkini
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Complimenti per il pezzo, riflessioni fuori dal tracciato
"Mi è capitato in passato di relazionarmi con persone che volevano scrivere per N3rdcore dichiarando di avere esperienza di scrittura e capacità di espressione che poi palesemente non c’erano, persone che sostenevano di essere grandi professionisti e sono spariti dopo due articoli senza manco spiegare il perché..."
Ma N3rdcore quale 'magazine' retribuisce i pezzi e/o paga? Non lo chiedo per fare polemica, ma se non è così non vedo quale 'obbligo' a continuare si possa chiedere, al massimo si dà una mano e via