Heavy Guest - Claudio Cugliandro ci parla di influencer
I content creator come categoria che fugge dalla responsabilità e che vende molte cose ma soprattutto il proprio pubblico.
Uno degli obiettivi a lungo termine di Heavy Meta è quello di diventare non solo uno spazio dove trovare consigli e i miei mugugni sul mondo del giornalismo e dei content creator, ma anche dove dare spazio e voce a chi queste cose le conosce e le vive. A volte con delle interviste, altre volte con i guest post. O almeno, così sarà da adesso perchè Claudio inaugura la rubrica Heavy Guest, ovvero qualcosa qua dentro non scritto da me.
Claudio Cugliandro, classe ‘91, ha scritto per anni nel settore dei videogiochi in tantissimi spazi, sia nella specializzata che nella generalista, ha curato la bellissima rassegna di video chiamata Glitch, il progetto Deeplay (che poi ha scatenato l’idea di questo scritto) e un sacco di altre cose legate al mondo dei videogiochi, viste sempre con un occhio molto particolare.
Poi giustamente si è ricordato che doveva campare e ha deciso di fare anche altro, ma il gusto per parlare del settore gli è rimasta.
Oggi gli ho chiesto di elaborare un po’ una riflessione su influencer e content creator che nasce da un suo post su Instagram e con cui mi sento molto affine. Ammetto che mi fa strano non scrivervi qualcosa oggi ma la stranezza è sempre un sentimento interessante, tanto per settimana prossima ho già un’idea in canna.
Ah ti piacerebbe proprio fare un guest post? Parliamone.
Meme batte storia: di influencer e comunicazione online
Ci sono discussioni vecchie che, come per molte cose vecchie, tirano sempre molto, perché coinvolgono i vecchi, anagrafici o d'animo.
Parlerò di cose di cui si parla e discute da tempo, ma solo in alcune bolle, perché certi temi temi tirano sempre molte ma tra chi può permettersi di discuterli, e mettono un po' a disagio chi invece preferirebbe che, a un certo punto, le cose vecchie si decidessero finalmente a morire.
E quindi: che saranno mai st'influencer e ‘sto content creator di cui tutti parlano, che un po' tutti siamo, che nessun vuole essere e al contempo tutti vogliono un po' imitare?
A giudicare da molte (auto?)definizioni, il content creator è quel professionista della comunicazione che riorienta l'attenzione del suo lavoro sulla qualità del prodotto (video, audio o quel che è), e non su ciò che viene venduto (chi lo guarda, ascolta, sapete l'antifona).
Questa (auto!)definizione non mi ha mai convinto: la terminologia per descrivere registi, fotografe, autori e programmatrici esiste già. A me è sempre sembrato che il termine "content creator" sia stato coniato, almeno un po', per fuggire dalle responsabilità che venivano riconosciute alle vecchie categorie, e che terminologie più fluide e intangibili riescono a rendere meno evidenti.
Questo potere è però facilmente definibile: si tratta di avere influenza. L'influenza (capitale) sociale è sempre stata una bene di grande valore nella storia, e di certo lo è nella società contemporanea.
E d'altronde spesso i più aspri critici di queste "nuove" (la smettiamo di chiamarle nuove? Ho vissuto più anni con gli influencer che senza...) categorie sono coloro che parlano di giornalismo come se fosse uno degli istinti primordiali dell'essere umano, che invece è stato il prodotto di esigenze di classe specifiche in un contesto storico specifico.
Moltissimi degli studi relativi all'uso dei social network e della comunicazione 2.0 (la ricetta tecnologica e culturale che produce l'influencer) ci dimostrano come quello di queste piattaforme sia tutto un bluff: nonostante i numeri quantitativamente pazzeschi, ciò che facciamo lì dentro è più che altro urlarci addosso, che sia per litigare o per annusare le nostre stesse arie.
E non v'azzardate a dare la colpa al giornalista, al creator o, siate maledetti se lo fate, all'utenza: sono le piattaforme a essere modellate per riprodurre schemi funzionali a questo status quo del rumore che sono oggi i social network e, in generale, il web 2.0.
Poi, certo: le responsabilità sono diffuse, a partire proprio da tutti coloro che, definendosi divulgatori e difensori della scienza, negano gli studi che dimostrano che le loro immense energie profuse nel "diffondere il vero" sono sprecate. Il webete che dà del cornuto all'account fake terrapiattista.
L'essere umano tende a relazionarsi all'informazione non in modo razionale, come un altro fenomeno di un contesto storico specifico esaltato da esigenze di classe specifiche ci ha raccontato, ma in modo ragionevole. Sembra lo stesso, ma non è: la pura razionalità (che, per fortuna, non esiste) ci porterebbe a ricercare sempre il vero/reale, ma la ragionevolezza ci fa guardare all'utilità della notizia/storia/fatto in relazione al contesto sociale in cui ci troviamo.
E allora a quel punto poca importa se mi dimostri il vero o il falso: a me serve sapere se quel fatto è visto in modo positivo o negativo dal mio gruppo, da chi mi circonda, e se posso leggerlo in un modo che possa alleviare il terribile dolore che vivere nell'antropocene mi causa a ogni risveglio.
Ma torniamo all'influencer: il "professionista" della comunicazione, sulla carta, crea relazioni tra sensi, messaggi o significati. L'influencer, al contrario, crea contesti social, curandone il racconto tramite la sua narrazione: le storie dell'influencer, dall'inside joke alla sua "empatia" umana, con la quale ci racconta i drammi e le commedie della sua quotidianità, creano non solo un legame con lei, ma anche con il resto dei miei "pari" che con me partecipano la sua comunità.
Prendete Twitch: nel caso dei nostri contesti (videogiochi, fumetti, roba geek in generale), è la quintessenza di questo processo. La Maratona, come raccontavo su GLITCH, non racconta davvero niente, non parla di qualcosa di specifico: l'influencer ti fa vivere un momento di socialità mediata, narrata non dal nostro capo, dal telegiornale o dal politico, ma da dungeon master capace di farmi sentire partecipe.
Difficile volersene andare: anche solo allontanarsi da quegli spazi significa rischiare di perdere riferimenti, momenti, situazioni. E' un po' come perdersi una puntata di Friends: non cambia quasi niente nell'economia del racconto, ma rischi di non poter più capire i riferimenti social(i) tra i tuoi pari, magari il meme di Joey che strabuzza gli occhi. E chi oggi, in coscienza, può dire che il racconto è ancora più importante del meme?
Link e altre cose di giornalismo
Settimana scorsa mi è arrivata una recensione da una stella al libro perché c’è lo schwa e la prefazione contiene la parola “patriarcato”. Quindi con l’editore si è pensato di pubblicarla su N3rdcore.
Vi sta piacendo la serie su Fallout? Se non l’avete considerata provo a convincervi su RaiNews24.
Settimana scorsa su Repubblica è caduta l’ennesima tegola. Centinaia di copie del giornale sono finite al macero perché un pezzo sui rapporti economici tra Italia e Francia non era piaciuto molto all’editore.
La maggioranza di governo ha anche deciso di cambiare alcune norme sulla par condicio e nei telegiornali Rai il 12 aprile è stato letto questo comunicato di protesta.
Si cerca nuovamente di inasprire il reato di diffamazione a mezzo stampa con pene fino a 4 anni, con aggravanti se lo si fa contro un politico. Anche stavolta penso che finirà con una dichirazione di incostituzionalità.
La newsletter
compie un anno e con l’occasione fa il punto sulla galassia substack di gente che parla a vario titolo di videogiochi. Magari vi aiuta.Zampini di
su Il Post parla delle frasi fatte nei videogiochi. E interessante come il suo arrivo e il lavoro ai fianchi redazionale (ipotizzo) abbiano aperto sempre di più la testata a questi contenti.
un piccolo appunto, il post parla di video giochi da un po' con joypad, podcast che esiste da tempo (e con periodicità scostante) che prima era in formato video. dal post pandemia effettivamente pare anche a me che sul sito si vedano più articoli, anche ad opera di altri (sicuro Pietro Minto, ma anche altri giornalisti e giornaliste)