Imparare la viralità dall'aperifish
Possiamo imparare qualcosa sulle piattaforme e sui contenuti da una friggitoria catanese che vuole venderci il suo pesce fritto a 15 euro?
Magari se ci conosciamo lo sai già, magari no, però ho deciso per l’ennesima volta di complicarmi la vita in modo emozionante. Mi è stato chiesto di candidarmi nella lista di Sinistra Progetto Comune che a Firenze sostiene la candidatura di Dmitrij Palagi come sindaco e dopo lungo cogitare ho detto di sì.
Lo so, la politica è una cosa brutta, la politica rovina tutto, eccone un altro che non vuole lavorare e campare alle nostre spalle. Vi assicuro che le ho già pensate tutte prima di voi. Pensatemi di battermi nel gioco di autosabotarmi? Pensate meglio, è un gioco che porto avanti da 40 anni.
Detto questo sarà un’esperienza senza dubbio interessante in cui ho dei grandi punti di forza rispetto alla media sui linguaggi, sugli strumenti, sulle capacità di espressione e, su come muovermi nei social, ma anche tante cose da imparare. Perché la politica locale è conoscenze, contatti, facce, ascolto, burocrazia e fino oggi io ero tutto meno che un soggetto politico di questo tipo.
Però di politica parlavo continuamente: lavoro, disuguaglianze, cultura, società. Ho sempre detto che tutto è politico, quindi perché non provare a cambiare qualcosa, anche solo una piccola cosa?
Ma non vi preoccupate, non vi assillerò qua con la mia campagna, se non magari in qualche piccola nota curiosa, perché comunque la politica è anche tanta comunicazione, con registri politici e riti precisi che sono molto curioso di studiare.
Per ora l’unica nota di rilievo è che in un post dove ho annunciato questa scelta ho ricevuto una grandissima dimostrazione di affetto, grandissima e inaspettata. A volte bisogna fidarsi un po’ di più di quello che si è seminato.
Stiamo fallendo!
A proposito di registri comunicativi, non so se anche voi siete finiti nella bolla del nuovo genere cinematografico di riferimento: i reel dei locali del sud, di solito catanesi, che pubblicizzano i loro prodotti con dei siparietti interpretati da proprietari, camerieri e amici.
Il canovaccio prevede due filoni principali: un avventore che si lamenta dei prezzi molto alti che di solito vengono chiesti per un aperitivo o il figlio del proprietario o un dipendente che hanno paura che il locale stia per fallire a causa dei prezzi troppo bassi delle loro offerte.
Poi ci possono essere mille variazioni: la donna incinta che ha paura di mangiare male, quello che non sa dove portare la fidanzata, gli amici che cercano un posto buono dopo mille fregature, il proprietario disperato perchè ha comprato troppo pesce.
Anche se i miei preferiti sono i finti incidenti stradali. Che credo sia un format rubato a quella fucina di talenti anni luce rispetto a noi che sono i creator indiani.
Il punto centrale della narrazione è l’ingresso trionfale del gestore o di un cameriere che porta con sé un vassoio lungo come una portaerei pieno di cibo, che ovviamente è di super qualità e venduto praticamente in rimessa (per gli standard fiorentini di sicuro, ma le fonti locali mi dicono che il costo del cibo a Catania, comparato soprattutto con la sua qualità, è decisamente basso e non fatico a crederlo).
Tutta questa commedia dell’arte è recitata rigorosamente in dialetto, con una dizione meccanica, impacciata, urlata, che non prova neppure a nascondere il fatto di non saper minimamente stare di fronte a una telecamera, anzi, ci leggo quasi un certo gusto nell’esagerare questa condizione, perché rende il tutto ancora più “vero”.
Questi contenuti, che potremmo definire “cringe advertising” sono la coda lunga dei primi esperimenti di questo tipo nati qualche anno fa su TikTok, che è la patria del cringe, del tentativo, della sperimentazione e che nascono proprio da piccoli esercizi che col tempo sono diventati fenomeno nazionali proprio grazie a questo tipo di contenuti.
La tizia delle pellicole protettive, pescherie napoletane, paninerie in tutta Italia hanno provato, ad alcuni è andata male, per altri è stato un successo clamoroso. E se guardo questi video catanesi i like e i commenti sono nell’ordine rispettivamente delle migliaia e delle centinaia, con visualizzazioni nell’ordine delle centinaia di migliaia.
E per quanto non abbia idea se tutto questo teatro dell’assurdo si converta o meno in scontrini, posso dirvi che se andassi a Catania ci andrei e ogni volta che li vedo mi viene fame.
Ma cosa c’entra tutto questo col giornalismo e con la comunicazione?
Ovviamente non penso che tutti debbano improvvisamente lanciarsi a pubblicizzare le proprie abilità comunicative o i propri articoli come se fossero un cestino di frittura di mare, ma quello che le friggitorie catanesi hanno capito, o comunque hanno imparato a sfruttare in modo conscio o meno, sono le caratteristiche di queste piattaforme.
Innanzitutto, ti offrono uno spettacolo che rompe la malinconia del doomscrolling: il contenuto è da subito aggressivo, urlato, strano, e quindi ti fermi.
Poi c’è la parte dell’assurdo. “No vabbè ma come recitano questi, che cringe, fammi vedere fin dove si spingono”. E tu resti.
Poi arriva il cibo e tutto sommato è qualcosa di bello da vedere, quindi non ti stacchi.
Infine, ti viene da passarli in giro, da parlarne, perché sono buffi, perché sono vernacolari e colorati.
E comunque ti hanno dato esattamente quanto promesso nell’arco del siparietto: una premessa drammatica, l’intervento e la risoluzione.
Economie vettoriali
La cosa gli invidio è la capacità di gestire il cringe, il contenuto che non dev’essere perfetto o almeno, che sa esserlo nell’accettare il cringe loro sono liberi da ogni forma di paura di sbagliare e da ogni ansia di professionalità. Ci vuoi vedere urlare in catanese agitando pizze al pistacchio e hamburger di carne di cavallo? E guardarci, e ridi, ci sei comunque utile. Tanto anche tu che fai tutto il professionale su Instagram sei cringe, che ti credi?
Credo che in questo faccia anche tanto gioco la schiettezza locale, soprattutto se vista con l’occhio di un esterno, perché se lo facesse un locale fiorentino probabilmente l’odierei con la forza di mille soli. Oddio, e se fosse una sottile forma di razzismo per cui è buffo qualcosa che ci conferma determinati stereotipi sul sud? Sorvoliamo.
La verità è che molto spesso chi crea contenuti e si incazza con gli algoritmi (tipo me) si ritrova a cercare di mettere figure tonde in buchi quadrati, dimenticandosi che il contenuto non deve piacere a te, ma alla piattaforma e, di conseguenza, al pubblico. Perché il rapporto non è tra te e pubblico, ma tra te e pubblico con la mediazione della piattaforma.
E questo purtroppo vale più di qualsiasi tentativo di essere professionali, precisi e informativi. Il contenuto funziona perché trova una nicchia, perché intrattiene o perché sei già famoso e allora fama chiama fama.
Leggevo l’altro giorno in un libro di qualche anno fa che si chiama “Capital si dead” la definizione di “Vector Economy” ovvero un sistema economico che si basa sul controllo dei vettori, cioè tutto il sistema che gestisce la creazione e diffusione di informazioni.
I social network, anzi, i social media, sono ovviamente vettori. L’obiettivo di un vettore è assorbire tutto, anche le spinte negative, anche quello che per assurdo non dovrebbe funzionare e trovare un modo di farlo funzionare, oppure farlo sparire.
Immaginate una sorta di Quinto Potere in cui al posto di Howard Beale che vuole farla finita e che diventa il profeta pazzo della tv ci siamo noi e al posto della responsabile di rete Diana Christensen, che ne decide successo e morte, ci sono le piattaforme e chi le regola.
E queste friggitorie funzionano, ribadisco, non so quanto consapevolmente o meno, perché il loro bisogno di visibilità coincide con un tipo di intrattenimento che oggi sulle piattaforme di oggi. Il messaggio ti arriva perchè sei disposto a guardare loro che fanno i siparietti cringe e perché il cringe è uno dei generi letterari della piattaforma.
Hanno capito che ogni volta che teniamo un telefono in mano siamo inconsciamente dei compratori che vogliono scambiare attenzione con divertimento.
Se vedessi tutto questo dentro una tv regionale, probabilmente cambierei canale ridendo dopo la prima volta, qua invece li guardo tutti, li catalogo, riconosco le facce ricorrenti, e ovviamente l’algoritmo continua a pompare nel mio feed video suggeriti di altri ristoranti, di negozi di abbigliamento che ti danno il drip giusto per uscire con la tipa (roba che non metterei neppure per sotto la minaccia di armi) e così via.
Ve li guardereste quei video con la musica di grissinbon rallentata in televisione? Mi sa di no.
Sicuramente non possiamo fare tutti così, perché non tutto può essere fatto allo stesso modo e io non vendo pesce fritto, ma sviluppare una capacità istintuale nel coprire il messaggio con un intrattenimento funzionale, qualsiasi esso sia, ha senza dubbio senso.
A volte quando le cose non funzionano stiamo adattando logiche vecchie a spazi nuovi, per quanto male ci possa fare ammetterlo. E che l’unica soluzione è sperimentare, cambiare, cringiare. Oppure, altra scelta legittima, alzarsi da un tavolo in cui le regole del gioco non ci piacciono.
Siamo nel futuro dove ognuno riuscirà a venderci qualcosa per 15 minuti umiliandosi, e quel qualcosa spero sia un aperifish freschissimo.
Mi dicono dalla regia che le call to action sono importanti, anche se le odio, quindi se ti è piaciuto quello che scrivo magari fallo girare, perché conta tantissimo. Se poi ti hanno girato questo pezzo e vuoi continuare a leggerne altri ti puoi anche iscrivere e sarebbe una bomba.
Link e altre cose
Luca ha fatto incazzare un po’ di gente ricordando che sì, le piattaforme aumentano i prezzi, ma sperare di avere tutto gratis forse è pretenzioso.
Io invece vi consiglio un manga che parla di spazzatura e del nostro legame con gli oggetti: Gachiakuta.
Ho anche scritto di Helldivers 2 su Link - Idee per la TV, parlando del legame tra parodia e gente che la prende sul serio.
Questa settimana su Altri Mondi invece ho parlato di Zau, un videogioco che ha come tema il lutto, come lo evitiamo, come lo affrontiamo e come lo superiamo.
Le proteste contro il genocidio palestinese hanno fatto crollare tutta l’ipocrisia dei campus americani sul tema dell’inclusione. Ecco il vicepresidente per l’inclusione all’Università della Northern Arizona che smonta le tende di chi protestava.
mi ricorda che non devo raccontarvi tutto ciò che non è utile e ha ragione, ma continuerò a sbagliare e a farlo.Uno scritto importante per liberarsi dall’ansia del link nel primo commento. Grazie
oggi vi spiega un sacco di termini che secondo me non sapete.Te lo sai cosa è un isekai?
si.
"A volte quando le cose non funzionano stiamo adattando logiche vecchie a spazi nuovi, per quanto male ci possa fare ammetterlo".
Da scolpire nella pietra.
non sapevo che questi video fossero un trend, ogni tanto qualche amico/sito di news mi passa qualche link particolare, ma mai avrei immaginato una cosa del genere! Per fortuna non rientrano nel mio algoritmo di instagram