Le cose più facili hanno sempre un costo
La doccia fredda del mancato accordo tra Meta e Siae ci riporta al vecchio adagio che è sempre bene avere uno spazio che sia il più nostro possibile.
Ci sono settimane in cui gli spunti di discussione latitano e devi fare i salti mortali (consiglio: quando non c’è veramente niente in giro buttatevi sulla nostalgia e gli aneddoti del passato, funziona sempre) e settimane in cui ci sono un sacco di cose su cui puntare i riflettori, a volte dover scegliere è peggior che dover trovare una soluzione.
Come si fa in questi casi? Personalmente, cerco di bilanciare il potenziale interesse per l’argomento con le mie capacità di tirarne fuori una riflessione interessante o che mi scorra bene sotto le dita. Insomma, come al solito, un po’ è esperienza, un po’ è intuito (che è sempre esperienza, ma meno conscia) un po’ è la voglia di arrivare alla soluzione nel modo più efficiente e meno noioso possibile.
Tranquilla gente, gli appunti del corso di scrittura torneranno, magari è la volta buona che sblocco la doppia uscita settimanale. E magari gli abbonamenti per chi vuole dare un supporto concreto. E magari qualcosa di fruibile in altro modo.
Intanto, c’è sempre Ko-Fi.
Spigolature
Ma visto che questa newsletter si è evoluta in una sorta di pensatoio con la porta aperta, ecco gli argomenti che mi avevano colpito questa settimana. Sì, sto cercando di imparare ad appuntarmeli.
Ci sono stati gli Oscar e lo strascico di discussioni che hanno offerto un bel po’ di argomenti. Anche perché gli Oscar, come ogni premio, non sono quasi mai l’esaltazione della cosa migliore, ma la cosa che in quel momento riesce a intersecarsi meglio con lo spirito del tempo.
Amatelo o odiatelo ma Everything Everywhere all at once è senza dubbio un film che riassume molto bene un certo modo di intendere il presente e il post-post-modernismo e la produzione di contenuti. È un film che parte “dal basso” con uno storytelling ispirazionale e mescola nella sua trama citazionismo di ogni tipo, personaggi metatestuali, copia e incolla, campionature, drammi familiari e una discussione sulla depressione (risolta in maniera semplicistica).
Ditemi voi se non è perfetto per l’oggi. Ditemi se non è il manifesto del discorso sulla creatività che facevano la volta scorsa e se non mostra un lavoro di taglia e cuci di mille idee differenti che erano già là e aspettavano solo di essere messe assieme come pezzi del Lego.
Sempre sugli Oscar: bella la vittoria di Ke Huy Quan, ma niente mi toglie dalla testa che sia una vittoria pensata soprattutto per farlo abbracciare con Harrison Ford e coltivare il mito del grande ritorno, dell’outsider che vince, di quello che è stato al posto suo senza disturbare in attesa del sogno americano che si realizzasse. Che poi è anche un po’ lo storytelling della come back story di Brendan Fraser, portato sugli allori dallo stesso meccanismo che per anni lo ha allontanato.
L’ultimo spunto: mentre commentavo gli Oscar su Twitch ho dato un’occhiata a cosa c’era online sulla piattaforma in quel momento. Molti canali facevano la stessa cosa e avevano circa un centinaio o poco più di persone in ascolto mentre un famoso streamer faceva la lista delle migliori merendine con 6000 (seimila, dico, seimila) persone collegate. Non so se questo dice qualcosa sull’interesse del pubblico medio di Twitch per gli Oscar, sul fatto che a un certo punto, parafrasando McLuhan, la persona è il messaggio o se ci sono altre cose che ora mi sfuggono, ma di sicuro qualcosa dice.
Volevo scrivere qualcosa sul pessimo storytelling della studentessa americana a Firenze, ma poi è diventato uno dei miei soliti caroselli su Instagram (ormai li adoro).
Alla fine però, ieri l’argomento giusto mi si è parato davanti grazie a Meta e la Siae.
Quel che produci è veramente tuo?
Se non vivete sotto un sasso vi sarà arrivata la notizia del mancato accordo tra Meta e la Siae per l’utilizzo delle canzoni nel suo catalogo sui social network di Zuckerberg, quindi Facebook e Instagram.
La musica è un potentissimo strumento di coinvolgimento emotivo, un coinvolgimento che è essenziale per raccontare piccole storie e scatenare emozioni che poi portano al click, al follow e alla condivisione del reel in altri account e così via.
Strumento che su altre piattaforme, tipo YouTube, è difficilissimo se non impossibile da usare perché, a meno di non possedere i diritti, devi rifugiarti nelle librerie di musica senza copyright, che ha molto meno effetto delle hit più conosciute.
Ultimamente sto facendo la Rassegna Stanca proprio su YouTube e se voglio commentare un trailer con un pezzo famoso sotto rischio che la live venga brutalmente interrotta dal sistema per violazione del copyright, per capirci.
Infine, c’è tutto il tema dei brani che diventano famosi proprio grazie a reel e tiktok e improvvisamente vengono scoperti da un sacco di gente. Certo, parliamo sempre di un contesto musicale abbastanza critico in cui chi fa musica raccoglie le briciole di Spotify, ma meglio dell’anonimato, immagino.
Non voglio mettermi qua a riflettere su chi sia stato veramente a far saltare il tavolo della trattativa, né fare considerazioni su quanto l’Italia tutto sommato conti ben poco nelle strategie mondiali di qualsiasi azienda.
Il fatto che mi interessa è che per anni abbiamo dato per scontata una cosa, c’è chi ci ha costruito un lavoro, una carriera o comunque una fonte di reddito o comunque dei contenuti, contenuti che erano fortemente caldeggiati dalla piattaforma stessa per aumentare la permanenza delle persone su Instagram e fare la guerra a TikTok, e oggi quei contenuti sono praticamente spazzatura. In alcuni casi nei reel è saltato pure il parlato.
Il punto qua è un punto detto e ridetto più volte da gente decisamente più intelligente di me: quello che mettiamo sulle piattaforme di altri non è nostro.
La gratuità si paga in altro modo, la comodità di uno strumento come i reel o Instagram si paga in altro modo. La facilità di accesso che un’azienda garantisce per attirare le persone sulla sua piattaforma (e poi buttarla in merda) ha sempre dei costi nascosti.
Il più banale è che poi quei contenuti possono essere bloccati, cambiati o cancellati senza dirti niente e per quanto Instagram, Facebook, TikTok o chissà cosa arriverà dopo possano darti una via di accesso facile alla creazione e alla condivisione di contenuti starai sempre ballando la musica di qualcun altro su un palco che ti può essere tolto.
Il ricatto qua è “forse ti renderò una persona famosa MA dovrai fare le cose come dico io, seguendo i trend che impongo io, con una assistenza che spesso manco sarà in grado di aiutarti se ti si blocca l’account e forse alcuni accordi commerciali potrebbero distruggere il tuo lavoro di anni”.
Per chi crea contenuti queste condizioni dovrebbero essere inaccettabili, ma alla fine ci siamo stati perché comunque fare un video di pochi secondi o un carosello di immagini è più “facile” di molte altre strade.
Disclaimer: non sto dicendo che il lavoro di social media manager o in generale il lavoro di chi produce contenuti sui social sia facile, conosco le ore che ci vanno spese dietro, ma è indubbiamente più “facile” e accessibile di crearsi da soli un bel blog su wordpress, creare e distribuire un podcast o fare un video su YouTube (che resta comunque una piattaforma altrettanto volatile), creare un contenuti semplice ed emozionale condensato in una singola vignetta o in un breve video che scrivere paginate tipo questa.
Insomma, regalare un contenuto a una piattaforma che ti fornisce degli strumenti già pronti e più semplice che cercare di possedere il più possibile quel contenuto. O almeno fare sì che all’occorrenza quel contenuto possa seguirci.
Che fare?
La soluzione perfetta ovviamente non esiste, anche perché ci sono contenuti che possono seguirci meglio di altri.
Se domani questo spazio mi impone delle condizioni inaccettabili posso esportare i miei testi e anche l’elenco delle persone iscritte in due click. I podcast possono essere condivisi contemporaneamente su moltissime piattaforme. I video, a fatica, possono trovare altri spazi, le immagini anche, ma ovviamente il contesto di diffusione commerciale di reel e immagini dato da Instagram e TikTok è complesso da replicare.
In fondo è un po’ una scommessa vinta dalla “nuova internet” dei social contro quella vecchia, no? Dammi la tua roba, ci penso io a distribuirla e conservarla e forse sarai famoso (perché oggi i social a questo servono per molte persone, me incluso. Non a condividere con gli amici, ma a creare una piattaforma di condivisione di ciò che facciamo con finalità commerciali), se invece la roba vuoi tenerla per te forse la fama sarà più difficile, sicuro di volerlo fare?
Abbiamo barattato il passaparola con gli algoritmi.
Era più facile, più veloce.
Lo facevano tutti, e in effetti era assurdo non farlo.
Ecco perché amo questo spazio, dovrei frequentare di più Livello Segreto e mi terrò stretto N3rdcore. Tutto può essere spazzato via ma in qualche modo avere “una stanza tutta per sé” ci tiene al riparo dalle tempeste legali e dai marosi dell’algoritmo.
Certo, è anche più difficile costruirsi un pubblico, ma è anche più grande la soddisfazione quando vedi il passaparola che si attiva per consigliare te, proprio te, non qualcosa che incontra i favori di hashtag. Chiamatemi vecchio, ma mi scalda il cuore.
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Damiano D’agostino, coautore della bellissima
ha scritto su N3rdcore delle condizioni di lavoro di chi crea videogiochi.Io ho scritto dell’ultima puntata di The Last of Us, è stato molto bello avere un appuntamento fisso di scrittura, adesso me ne devo trovare un altro.
Alessandro Palladino vi consiglia un gioco.
Una analisi molto bella che c’entra tantissimo con Heavy Meta su
: come si è scritto di un videgioco in Italia e all'estero e su quali aspetti ci si è concentrati nell'analizzarlo. ci parla del futuro di NintendoSu
invece si parla delle influenze di MTV su ciò che l'ha praticamente uccisa.
Cavolo, non volendo abbiamo espresso lo stesso pensiero nello stesso giorno. Tu magari meglio di me, ma comunque siamo lì. Fico.