Mangione tra di noi
Ogni evento terribile porta con sé la ricerca delle sue cause nella vita di chi lo ha compiuto, ma quella ricerca a volte genera mostri e si sta rivelando sempre più inutile nell'internet di oggi.
C’è un teatrino che va avanti più o meno da vent’anni, forse prima: quello di gente che deve dire qualcosa di male sui videogiochi, per interesse, per calcolo, per ignoranza, andando contro ogni evidenza scientifica, e gente che, ovviamente, si getta sulle barricate per ricordare che i videogiochi non fanno diventare violenti, che non sono un sostituto dell’educazione familiare, che se ti isoli con loro sono un sintomo e non la causa.
Questo al di là del fatto che i videogiochi siano sicuramente spazi affascinanti e spesso perfetti per riempire i nostri vuoti e il nostro tempo, anche quando non dovrebbero, e al di là dei genitori giustamente preoccupati di figli che si ossessionano con Fortnite, contro cui non hanno armi.
È uno schema che va avanti da anni, sempre identico, a cui ho partecipato anche io, ovviamente. Perché, quando succede ti girano le scatole, perché è un ragionamento ottuso, oggi come allora. Lo fai perché ci tieni, ma è innegabile che lo si fa anche per posizionarsi, per mostrare alle proprie community che combattiamo la battaglia giusta, con i nostri articoli, le nostre interviste agli psicologi, le nostre lettere d’amore ai videogiochi.
E alla fine, se ancora dopo tutti questi anni siamo fermi là, è palese che queste difese non servono a niente. Perché spesso chi dice queste cose non dialoga con noi, o comunque se ne frega.
Quindi fatelo, fate gruppo, invitatevi, scrivetene, fate bene, ma sappiate (e forse lo sapete già) che serve solo come promozione di sé. E onestamente fate pure bene.
Dal canto mio, pur considerando sensate e lodevoli queste difese, ho smesso di buttarmi sulle barricate. Mi ero reso conto che era un esercizio sterile che serviva solo a me per sentirmi bello e allo stesso tempo farmi il sangue amaro per una situazione che mi generava rabbia, mentre la mia controparte neanche sapeva che esistevo.
Una volta ho avuto anche un dibattito durante la pandemia sulla Rai contro una psicologa che mi disse di tutto e negò ogni evidenza, arrivando a dire che non avrebbe mai riabilitato i videogiochi.
Là ho capito che è come discutere coi terrapiattisti o chi pensa che non siamo stati sulla Luna. Non ha senso, non serve. Il mio modo per far conoscere meglio i videogiochi e continuare a parlarne dove posso e come posso, che siano belli o brutti, che siano ambienti tossici o piacevoli, che abbiano community schifose o inclusive.
C’è solo un modo per battere questo tipo di visione e si basa su qualcosa che non possiamo controllare: il tempo. Dobbiamo solo aspettare che ne passi ancora un po’ e che certe idee se ne vadano con un certo tipo di persone. Provando, nel frattempo, a non diventare come loro.
I fatti miei
Questa settimana è uscito un articolo su The Fix che parla della condizione umana e mentale di chi fa giornalismo freelance in Italia. Per l’occasione mi hanno intervistato e ovviamente ho detto ciò che qua ripeto da tempo, di quanto questo lavoro ti possa dare esperienze bellissime ma anche di quanto possa essere logorante, stressante e molto, molto precario. Di quanto sia spesso un lavoro per chi resta in piedi nonostante tutto, credo sia una delle prime cose dette su Heavy Meta.
E io sono pure uno di quelli fortunati.
Oltre all’articolo vi invito a leggere la ricerca “Cometisenti”, un sondaggio anonimo che mostra le condizioni mentali di chi fa questo lavoro senza contratto e senza tutele. E voi giustamente mi direte “ma che ce frega a noi che stiamo tutti male” e avete pure ragione. Ma un giornalismo povero, precario e maltrattato è un giornalismo debole, corruttibile e che finisce per non avere gli strumenti per raccontarvi le cose come stanno.
Senso vo’ cercando
Dico spesso che i videogiochi sono, tutto sommato, una grande nicchia conosciuta da milioni di persone, ma comunque una nicchia. E quando questa nicchia in qualche modo viene bucata da un avvenimento succedono sempre cose buffe. O almeno, che sarebbero buffe se non fossero imbarazzanti dal punto di vista giornalistico.
Luigi Mangione, il tizio che ha ucciso il CEO di una grande assicurazione medica, è un incredibile crogiuolo di storie e significati che collassano tra di loro tra violenza sociale, anarchismo, rivoluzioni, meme. Una persona ricca, belloccia, benestante, ben inserita nella società, che pare non avesse nemmeno tutti questi motivi di risentimento personali che abbiamo ipotizzato all’inizio, che improvvisamente diventa l’amico di tutti quelli che si sono rotti i coglioni di una società dove loro sono sempre più poveri e pochi sempre più ricchi.
Il modo in cui questa storia è stata processata è qualcosa di nuovo, anche per un mondo che aveva memato l’anno scorso sui milionari morti sul fondo del mare dentro un sottomarino difettoso e che di qualsiasi evento è pronta a creare video, collage, immagini che lo dissacrano, lo celebrano e le posizionano in questo spazio dove ormai procediamo per accumulo e in cui niente si butta via.
E come spesso accade in questi casi il giornalismo (ma anche l’uomo comune) si getta sulla vita degli assassini per capire se ci sono delle cause, delle motivazioni, se possiamo scorrere la storia di una persona come una collana di perle finché non troviamo quella fallata che ci farà dire “ecco, ecco il momento in tutto è iniziato”. Oppure, il racconto di vite assurdamente normali, semplici, miti, tanto per coltivare il topos letterario del male che si annida in silenzio tra le nostre banalità, pronto a prenderci la mano e condurla verso una pistola.
Una volta si parlava con amici, familiari e vicini, oggi con i social ovviamente si va a controllare i like messi, le foto, magari pure la cronologia, si controlla cosa una persona vede, ascolta, legge… e gioca.
La cosa è assolutamente normale perché la ricerca di senso è una delle attività umane che ci accompagnano da migliaia di anni. Passiamo la vita a cercare di raccapezzarci in quello che ci accade sperando di trovare dei collegamenti logici. E spesso la missione del giornalismo è proprio questa: dare senso.
Ed è in questo contesto che NBC News ha scritto che Mangione faceva parte di un gruppo di persone che giocavano ad un titolo dove, a turno, bisogna impersonare degli assassini ed eliminare gli altri giocatori senza farsi scoprire: Among Us.
È una informazione messa là, senza senso e senza ulteriore approfondimento. Sembra quasi voler suggerire una sorta di facile correlazione. Ed è stata probabilmente scritta da qualcuno che forse si occupa di cronaca o politica ma ignora del tutto la cultura popolare.
Una cosa che, oggi, in teoria, non ti potresti assolutamente permettere in questo campo. Non sto dicendo di conoscere ogni meme e ogni videogioco del mondo, ma almeno alcune coordinate su cui si muove il mondo oltre le conoscenze minime.
Anche perché il giornalismo dovrebbe essere meglio di così, dovrebbe separare le informazioni utili da quelle inutili e offrire un contesto.
Among Us è un gioco molto diffuso, che durante la pandemia ha toccato picchi di milioni di giocatori di tutte le età, con uno stile cartoonesco, buffo e privo di vera violenza, basato in senso lato su giochi da tavolo famosissimi come Lupus in Fabula o L’Assassino, ma è soprattutto un gioco innocuo.
E qua torniamo un po’ al discorso che facevo prima, solo che in questo caso è un problema di tipo giornalistico. Perché posso aspettarmi che un politico, uno psicologo, un filosofo, un presentatore tirino in ballo i videogiochi per i loro scopi, ma quando lo fa un quotidiano, senza poi fornire alcun contesto, ma lasciando che l’idea sedimenti nella testa del lettore, è disinformazione.
Qua non si cerca di dare senso, lo si sta creando.
E la notizia ha girato così tanto da attivare il consueto mercato della nozione che diventa notizia da consumare. Quindi oggi molti siti internazionali spiegano cosa sia Among Us e mettono come titolo “Mangione giocava ad Among Us”. Soprattutto i siti italiani che spesso prendono acriticamente quello che leggono, soprattutto perchè non lo capiscono.
E se i giornalisti che dovrebbero raccontarci il mondo non riescono a interpretare neanche la realtà di un videogioco famosissimo di chi è il problema? Di una enorme nicchia o di chi non si fa manco una ricerca e pensa “forse non ha senso scrivere sta cosa”?
Anche perché ormai le notizie si danno guardando le chiavi di ricerca, sperando di intercettare il mercato della curiosità del momento.
Per quanto sia un gesto normale lo scavare nelle vite degli altri per capirli meglio, per creare una identità, non dovrebbe essere una notizia di livello nazionale che un assassino abbia giocato a uno dei titoli online più diffusi negli ultimi anni. Non è il manifesto di Unabomber. Sarebbe come trovare correlazioni tra il suo atto e la roba che si è visto su Netflix.
Che poi ha anche collaborato allo sviluppo di un capitoli di Civilization, altro gioco pericolosissimo.
E il punto non sono neanche i videogiochi, perchè oggi è Among Us domani è un’altra cosa.
Le vite degli altri
Questo ci porta a un’altra riflessione, con cui chiudo questa puntata intensa: mettersi a scavare nei social per capire chi siamo è ormai una pratica stantia, spesso desueta, che funzionerà sempre meno.
Come scrive John Herrman sul New York Magazine, se avessimo analizzato la sua vita online prima dell’evento non avremmo capito assolutamente niente. Era un 20-qualcosa che bazzicava il mondo tech, ascoltava Joe Rogan, faceva attività. Poteva essere vicino a qualche ideologia pericolosa ma chi non lo è oggi? Chi non è potenzialmente qualcosa in mondo di meme che scherzano su tutto?
Internet non è più quel posto dove una volta scoprivi che il tizio frequentava forum strani, guardava cose strane, postava sul blog un manifesto politico terrificante o video dove annunciava ciò che avrebbe fatto o così via. Ovviamente succede, ma molto più raramente. Se escludiamo le chat private e i gruppetti orribili che spuntano ogni tanto su Telegram o in qualche agenzia di comunicazione milanese non è più il posto dove siamo qualcosa di diverso da ciò che la società vede di noi.
Internet, la sua parte più superficiale, è esattamente il posto dove ci comportiamo come la società ci vuole e dove mettiamo in mostra la parte di noi più “normale”
Link?
Volete sapere quanto è brutto il film su Kraven? Sì dai.
Oppure volete conoscere i problemi del fanservice e del queerbaiting, che sono alcuni dei temi fondanti della cultura popolare moderna (così non avete scuse se fate il giornalista).
Oppure vi interessa vedere l’ultima puntata di Altri Mondi, in cui vi racconto il gioco di Indiana Jones.