Marina Pierri - mollare il giornalismo per rifiorire
Quattro chiacchiere con la scrittrice di Eroine, ma anche autrice di podcast, ma anche critica di serie tv, ma anche curatrice di eventi, ma anche molte altre cose, Marina Pierri.
Prologo: Ho seguito il consiglio di alcuni di voi, e anche se sto capendo quale sarà il momento giusto per inserire una qualche forma di abbonamento, per adesso ho attivato un account KoFi dove, se volete, potete sostenere Heavy Meta. Stavo considerando che se ognuno donasse 3 euro ci faremmo praticamente uno stipendio ma… no pressure!
La prima volta che io e Marina Pierri abbiamo incrociato le nostre strade ci siamo stati serenamente sul cazzo.
Era una classica situazione vissuta da molti freelance: la doppia assegnazione. Io parlo con un referente che mi dice si a un articolo, lei parla con un altro che dà l’ok per la stessa cosa.
Ci confrontammo in modo vagamente passivo aggressivo sul da farsi e francamente non ricordo neppure come è finita, penso che uscì il suo pezzo perché era già pronto. Non ricordo neppure come abbiamo sovvertito la situazione diventando ottimi amici, forse ci siamo solo resi conto che era colpa del sistema in cui lavoravamo.
Comunque, se pensate che io faccia molte cose, non seguite Marina Pierri, già giornalista musicale, già colonna portante di Wired e del Corriere della Sera per quanto riguarda le serie TV, oggi scrittrice, organizzatrice del Festival delle serie tv, formatrice e così via.
Io la chiamo semplicemente Nostra signora della serialità.
Le ho chiesto un po’ della sua carriera e delle sue idee, perchè Marina ha fatto una cosa che io non ho ancora il coraggio di fare, ma vi lascio alle sue parole.
Pur sapendo benissimo cosa fai, ti va di raccontarci un po’ a cosa stai lavorando in questo periodo?
Tra un mese esce il mio podcast per Storytel, Soglie - Viaggio tra i mondi narrativi: la base è quella del mio primo libro, Eroine, ma ne costituisce una rielaborazione piuttosto profonda, più serrata, che si serve dei vari personaggi non solo delle serie tv, tra cui Alice nel paese delle meraviglie, per non arrivare a livelli troppo estremi di rarefazione (trappola in cui, appunto da semiotica, cado facilmente). Si tratta di un tema che spero di continuare a espandere in futuro. Ho delle idee e il mio sodalizio, se così vogliamo chiamarlo, con Il Viaggio dell’Eroina durerà verosimilmente ancora a lungo.
Alla fine di aprile, invece, arriva il mio libriccino su Raffaella Cerullo, la faccia oscura della luna de L’amica geniale. Al momento sto completando questo breve saggio, cui sono molto appassionata.
Sono, inoltre, recentemente stata presa a lavorare in una casa di produzione che finora non ha mai avuto serie originali, e intende modificare questo stato delle cose. È un’avventura meravigliosa per me, di cui dirò meglio presto; intanto, devo ammettere di essere emozionata all’idea di familiarizzare, in prima persona, con meccanismi che finora ho conosciuto da lontano senza avere opportunità di sporcarmi le mani.
Faccio, inoltre, parte del direttivo della scuola online di solidarietà “Come si scrive una grande storia”, pensata per agevolare il diritto e l’accesso allo studio dal suo fondatore (e persona cui voglio molto, molto bene) Francesco Trento. Al momento il corso mio e di Mary Stella Brugiati Scrivere le serie tv sta andando molto bene, abbiamo a bordo - mi pare - il gotha dell’industria seriale italiana che ancora non so com’è che ci abbia detto di sì con tanto entusiasmo. Più tardi partirà il mio nuovo corso, con Giulia Paganelli aka @evastaizitta, intitolato Scrivere e Riscrivere i Mostri.
Ma c’è di più, perché da due anni sto lavorando a un progetto letterario molto ambizioso che mi auguro davvero possa, presto, vedere la luce. Se in tutto questo dovessi dirti dove si trova veramente il mio cuore, ti direi in queste ultime righe.
Poi c’è sempre Il Festival delle Serie Tv, che probabilmente cambierà in maniera molto radicale in futuro dal punto di vista dell’offerta e dell’impianto. Ci stiamo lavorando.
Nella tua carriera hai rivestito molti ruoli, quale è quello che ti è piaciuto di più? E cosa deve avere oggi un lavoro per piacerti (a parte, ovviamente, i soldi)?
Il ruolo che non ho ancora rivestito, e non lo dico per mimare la celebre poesia di Nazim Hikmet che tanto si leggeva e scriveva sui diari al liceo. È proprio che non credo di aver ancora trovato il mio posto nel mondo. Sto lavorando per trovarlo. Se non altro credo di sapere già qual è, solo che dubito i tempi siano maturi. Del resto, ho quarantadue anni ma mi sembra di essere nata ieri.
Ri-nata, forse. Sono cambiata molto negli ultimi due anni, e il merito è in gran parte di Eroine che ha potuto riportarmi alle passioni originali, quelle di quando ero piccola, e poi giovane. Quando non avevo ancora imboccato quella che si sarebbe progressivamente rivelata la strada sbagliata, ed ecco una possibile versione dei fatti. L’altra è che nessun errore, almeno come lo intendiamo comunemente, sia effettivamente un errore.
Quale pensi sia stata la svolta più importante (o le svolte, se ce ne sono state varie) nella tua carriera e perché?
Lasciare il giornalismo, un privilegio che vivo come tale. È stato davvero faticoso, e ci ho messo molti anni, quasi cinque. Non era mai il momento giusto, fino a che non lo è stato, ma a un prezzo. Quando perdi un tassello di identità, e per me essere giornalista lo era, ti vedi a metà nello specchio, almeno per un po'.
Passa, però. Tocca solo sopportare di stare nell'interstizio tra il nulla e il qualcos'altro fino a che quel qualcos'altro arriva, a volte dopo un'attesa estenuante. Devo dire ancora una volta che se sono riuscita a trovare il coraggio di reinventarmi, è stato per merito di Eroine.
Per questo sono una potenziale paladina della sistematizzazione del proprio sapere accumulato, preferibilmente verticale, in oggetti culturali che rimangano: podcast, saggi, romanzi. Non tanto per quello che fanno o possono fare, in sé, ma perché aprono porte che fino a quel momento manco sapevi esistessero. Certo non è sufficiente produrre un oggetto culturale, bisogna anche farlo fruttare e la modalità varia da caso a caso.
Devi metterti in prima linea, esserci, spingerti dove hai paura di spingerti, talvolta e fare giravolte complicate, sopportando il fatto che le cose non sempre andranno come desideri. Tuttavia, nemmeno questo garantisce nulla. «Se vuoi, puoi» è un consiglio terrificante. Non sempre puoi, questo è molto più vero. E in ogni caso gli ingranaggi che portano qualsiasi prodotto alla diffusione (non necessariamente al successo) sono imperscrutabili, come chiusi in una scatola che nessuna persona ha il cacciavite giusto per aprire.
Quanto è difficile cercare di fare rete con altre persone cercando allo stesso tempo di non venire schiacciata dalle loro voci o di non creare un circolo che valorizza solo chi ci sta dentro?
Le cose sono molto, molto cambiate nel giro degli ultimi due-tre anni. Molte illusioni che covavamo, che covavo, sono scoppiate come bolle di sapone soffiate da un dispenser sottomarca. Semplicemente, cambiamo. E il mondo cambia attorno a noi. Non perdiamo questo o quello, lo trasformiamo. Almeno, credo. Mi piace crederlo. Con l’ultimo Festival delle Serie Tv mi sono davvero allungata, forse più di quanto potessi effettivamente fare, cosa che è difficile da comprendere per chi la vive dal di fuori. Come dire: faccio del mio meglio. Suppongo siano le altre persone a doverci dire quanto siamo rispettabili o meno, dal punto di vista umano.
Di mio, tendo a evitare il conflitto e mi sento ambasciatrice del quieto vivere salvo nelle circostanze in cui mi si pestano i piedi, ma suppongo tanto valga per chiunque. Adotto molte pratiche per preservare la mia igiene mentale, tra cui non seguire personaggi sgradevoli. Certe volte, però, nelle bolle si vive molto male lo stesso. Non che là fuori sia particolarmente meglio, intendiamoci.
Ma c’è pace, per lo più; sorellanza, convivenza delle differenze. Io, peraltro, sto sempre da una sola parte: quella della gente generosa e gentile, capace di conoscere i propri sentimenti e domare la propria aggressività. O il proprio ego. E la dannata smania di competizione. La competizione mi fa molto schifo.
Scherzando l’altro giorno ci confrontavamo sul fatto che se parlo io di videogiochi tutto sommato reagisce poca gente, se parli te in automatico scatta il “ecco un parere interessante!” e le condivisioni. A parte il mio essere un rosicone, quanto è importante essere la persona giusta nell’introdurre temi nuovi a un pubblico che non li conosce? Ti riconosci questo ruolo? Secondo te riguarda più il proprio stile comunicativo o la comunità che si forma attorno a te?
Tu sei una Ferrari sui tuoi temi, io premetto sempre che dei videogiochi sono una turista nella 126 del Ragionier Fantozzi. Scherzi a parte, credo che proprio questo forse semplifichi le cose: ammettere di non avere pretese di universalità avvicina, in qualche modo (non che tu le abbia, ma sei un professionista, è un campo da gioco differente).
Personalmente non disprezzo l’idea di “community”, ma non mi appartiene; non mi sento l’una che parla a molt*, la punta di un iceberg, e non mi piace salire su un gradino più alto delle altre persone. Parlo di me, dei miei sentimenti in relazione a qualcosa, del mio punto di vista e odio il paternalismo, l’atteggiamento sussiegoso di chi ti dice cosa è corretto fare e come (anche guardare le serie) perché l’assunto sotteso è che l’altr* non sappia stare al mondo, cosa fasulla.
Sopporto molto male lo snobismo, l’arroganza, la cattiveria, la prevaricazione a partire dai toni. Sogno dei social in cui essere sé stess*, ma i social mi piacciono sempre di meno, anche se ne sottolineerò sempre le opportunità. Vorrei tornare a costruire comunità offline dove possibile, o almeno più scambi a due, anche online.
Ha ancora senso oggi provare a fare del giornalismo classico o meglio puntare direttamente a altre forme di content creation?
Quando la gente, sotto i post, mi scrive “grazie della recensione” non riesco a trattenermi dal ribadire che le mie non sono recensioni, perché non sono disamine oggettive. Sono opinioni. Se ti piace la mia sensibilità e la senti vicina alla tua, bene, c’è spazio e desiderio di comunicazione. Per il resto, non sono la persona giusta a cui chiedere di giornalismo, perché come ti dicevo negli ultimi anni l’ho vissuta piuttosto male e ho idee forti in proposito.
Un giorno finirò per mettermi nei guai.
Qualcosa, non di meno, la devo dire. In questo momento storico un grande quotidiano ti può pagare trenta euro e poi dirti, di botto, che la paga è ridotta a quindici senza che tu possa farci assolutamente nulla. Il problema è che un articolo fatto bene non richiede pochi minuti, ma ore e ore. A volte io ho passato giorni interi su articoli pagati quindici euro, solo perché non tolleravo di fare le cose a tromba, nonostante tutto.
Cretina, sicuro.
Ma è anche vero che se tagli gli angoli perché, cristo, sei stanca, sei sfinita, non ti pagano una mazza, allora rischi molto perché comunque sai che i tuoi pezzi verranno dati in pasto ai social dove non riceverai sconti. Le persone si getteranno su di te come lupi alla prima inesattezza, al primo segnale di raffazzonamento. Avranno anche ragione e l’argomentazione “sì, ma mi hanno pagato troppo poco” non sarà sufficiente perché la professione stessa è percepita come un privilegio e certamente lo è. Non bisogna mai dimenticare quanto complesso e articolato è il mondo; quanto vario, quanto differente.
Se proprio devo dirti, comunque, trovo questo insieme di circostanze legato al giornalismo freelance, a oggi molto poco tutelato dal punto di vista legislativo (correggimi se sbaglio), preoccupante in relazione a dignità professionale e salute mentale. A monte, c’è da dire che dobbiamo insegnarci a pagare per l’informazione.
Questa stortura nasce anche dalla tragica bolla della gratuità con cui internet ci ha svezzato sin dai suoi albori, e ora è complesso tornare indietro, capire che se vuoi notizie scritte bene devi pagare bene, e soprattutto devi consentire a chi scrive di vivere bene. Il problema per chi scrive sui giornali da freelance è spesso rimanere senza ferie, in burnout da ciclo di notizie, con pochissima disponibilità economica, ma non per colpa delle persone con cui si lavora, perché in molti casi se la passano esattamente come te.
Più per colpa di questo tipo di mentalità acquisita, quasi spartana nel senso di 300, per cui tu, giornalista freelance, sei appunto una libera lancia di cui si può disporre perché il denaro è poco, sei un piccolo costo, dai, te la cavi, hai le altre collaborazioni, almeno di te possiamo non preoccuparci, vai e combatti, al resto pensiamo poi. Sempre poi. Vabbe’. Devo dire: ho lavorato, in media, con più persone piene di attenzioni e di cura nei miei confronti che il contrario.
Ripeto, è una questione sistemica. Non è una questione privata, o personale, anche se io ne ho subite parecchie anche in prima persona. E comunque non mi pare il caso di lamentarsi troppo. Ripeto, cerco di tenere a mente di essere una persona straordinariamente privilegiata e, per forza di cose, con un punto di vista parziale sulla realtà.
Come ti organizzi nel lavoro? Quale è la tua routine, se ne hai una?
Scrivo ogni volta che posso, ma soprattutto dalle 18.30 alle 21.30 circa, quando la gente smette di scrivere o chiamare e se ne va giustamente a fare altro, tipo cenare e sbattersi sul divano a guardare quel che le pare.
Ultimamente, ho imparato a dedicare alcuni minuti al giorno a pause in cui mi stendo sul pavimento poggiando il collo su un cuscino per la cervicale. Fa meraviglie, non ci crederesti. Recentemente, grazie a questa nuova abitudine, mi sono svegliata senza collo torto per la prima volta in, uhm, decenni. Se vuoi ti do il link di questo cuscino, che poi non è un cuscino, è più un sostegno.
Cosa ti piacerebbe fare che non hai ancora fatto?
Se arrivo a sessant’anni, voglio aprire la mia casa di produzione con tanto di casa editrice. Sogno una vita in cui possa dedicarmi alle mie storie, e alle storie delle altre persone. Per il momento, spero di riuscire prima o poi a pubblicare il mio primo romanzo e vendere la serie che stiamo sviluppando con lo studio di produzione di cui sopra. Sono, purtroppo, una persona che tende a vivere molto nel passato e nel futuro; lavoro tanto su me stessa per fare tesoro del presente. Nonostante questo sono come Capitan Uncino, la mia paura più grande è il tempo che passa, come se dovessi bilanciare perennemente due forze motrici opposte, una che mi spinge in avanti e una che mi trattiene.
La gente non segue mai i consigli, ma tu prova a darne uno alla futura Marina Pierri.
Più che altro vorrei chiederle se a furia di usare il sostegno le è poi passata, più o meno definitivamente, la cervicale.
Linkini, come sempre
Keke Palmer di Nope gioca a The Sims ed è uno spasso.
Donne e gatti nella storia dell’arte (link fornito da Matteo Lupetti)
Link del cuscino? 😅