Perché urlare funziona meglio del parlare
O anche del perchè i fandom hanno molto a che fare con la politica e creare contenuti che non stuzzicano le paure e le polemiche sia molto, molto difficile se vuoi pagare le bollette.
Rieccoci qua dopo l’inevitabile pausa che Heavy Meta si prende durante Lucca Comics & Games, di cui ho scritto in questi giorni su N3rdcore e di cui uscirà anche una puntata del podcast di Cap & Tanz. Quest’anno per me è stata un’edizione decisamente più giornalistica e meno di palco, cosa che inizialmente mi aveva messo un po’ storto. Nel contesto informativo attuale, ogni secondo in cui non sei visibile sembra un secondo in cui non esisti (in verità non è così, e soprattutto la tanto citata visibilità spesso non è affatto un plus, o almeno, non come vorrebbe vendercela chi cerca di pagarci con quella).
La verità è che, come al solito, dovrei smetterla di partire prevenuto, perché invece è stata un’edizione che mi ha dato belle soddisfazioni. Ho intervistato Pajitnov e Rogers, ho parlato su RaiNews24 di Dungeons & Dragons e pittura di miniature, ho fatto altre interviste interessanti e, complice il clima e la pressione della folla meno asfissiante, me la sono goduta un po’ di più.
Mi ha anche permesso di ricordarmi ancora una volta il privilegio di cui godo (e che, per carità, mi sono anche conquistato in anni di lavoro) in un contesto in cui parlare di videogiochi e, più in generale, fare giornalismo sta diventando sempre più un concetto precario, che non si fa a tempo pieno ma solo quando capita, mentre si cerca di stare a galla con mille lavori.
Perché, per quanto il lavoro del giornalista possa sembrare inutile o meno rilevante, a seguito della vittoria di Trump – che aveva praticamente tutti i giornali contro – o fazioso, come ci ricorda il peculiare modo di raccontare gli scontri ad Amsterdam in cui i tifosi del Maccabi Haifa sono stati dipinti come povere vittime sacrificali, la verità è che il giornalismo, se fatto bene, serve. Anche perché, come dimostrano proprio i fatti di Amsterdam, ormai c’è un robusto flusso di informazioni di prima mano che rende imbarazzanti le prime pagine dei giornali. Quegli stessi giornali che poi, incapaci di contrastare l’informazione proveniente da molte altre parti, si chiedono perché sono in crisi.
La realtà è fatta di più di quello che ci raccontano Cazzullo e Mentana, che si danno di gomito via Whatsapp mentre chiamano Kamala Harris “la Casellati nera” e guardano con il loro sguardo paternalista solo ciò che ritengono degno di interesse. La realtà comprende sia i videogiochi che le tribune politiche, oltre a molte altre cose, e molto di ciò che accade attorno alle opere di fantasia poi riverbera nelle tribune elettorali.
FanDoom
C’è un ottimo e centrato articolo di Alan Moore uscito di recente sul Guardian, che parla dell’influenza della cultura dei fandom sul mondo e sulla politica, collegandola alla vittoria di certi tipi di soggetti.
Moore, una decina di anni fa, nel pieno della “rivincita dei nerd” fatta di Funko Pop, Marvel Cinematic Universe e Bazinga, disse che tutto questo amore per i supereroi non era sano, che conteneva un problema con l’infantilizzazione delle persone e che le implicazioni sociali erano importanti.
Da una parte pensavo avesse ragione, ma dall’altra ritenevo che fosse tutto sommato il naturale processo di una generazione cresciuta con certe storie. Oggi direi che forse aveva più ragione lui di quanto fossi dubbioso io. E comunque consiglio sempre la lettura di Contro la vostra realtà, che è un testo del 2018 ed è ancora illuminante.
Nel suo articolo Moore non nega che la passione possa avere esiti bellissimi, virtuosi e positivi. Internet è piena di persone che fanno cose straordinarie solo per il gusto di farle e condividerle, ma lui si concentra su un tema che mi capita spesso di affrontare: quello di chi segue certe passioni per moltissimi anni, passioni che riempiono i vuoti che il mondo crea dentro di noi e diventano identitarie. E quando in quelle passioni entrano altre persone, non ci piace, è come se calpestassero il giardino che ci siamo costruiti con tanta cura.
“Con una rapidità inquietante, la nostra cultura è diventata un paesaggio dominato dai fan, in cui noi altri ci limitiamo a vivere. I nostri prodotti possono essere cancellati prematuramente a causa di una reazione avversa dei fan, e possiamo subire crociate in gran parte misogine come Gamergate o Comicsgate da parte di chi crede che “gate” significhi “complotto” e che la disgrazia di Nixon sia stata basata su una cospirazione che coinvolgeva l'acqua. Ma questa è solo una parte dell'influenza tossica che gli atteggiamenti dei fan hanno avuto sul mondo che ci circonda, in modo evidente anche nella nostra politica”.
Moore si concentra anche sul fatto che le comunità più virtuose faticano molto di più ad avere un impatto sociale positivo, e, pensandoci bene, non solo è vero, ma ci sono anche motivi strutturali legati al modo in cui le comunità si sviluppano oggi.
Non è solo che il trash, la violenza verbale, la volgarità o, più semplicemente, la pretesa di parlare di qualcosa senza affrontare i suoi risvolti più fastidiosi e “politici” sono linguaggi più semplici attorno a cui aggregarsi.
Il solito problema della Sinistra
A tal proposito, su Threads, tra un rage bait e l’altro di gente che spera di diventare famosa facendo arrabbiare perfetti sconosciuti, ho letto una serie interessante di punti della giornalista Joan Westenberg, che evidenzia i problemi dei “progressive content creator” (e, direi, anche dei giornalisti), problemi che Joe Rogan, il podcaster più famoso del mondo, non ha.
Ovviamente la situazione si riferisce principalmente agli Stati Uniti, ma può avere senso anche qui.
Per riassumere, i problemi principali sono che, in genere, i creatori di contenuti associati alla destra possono contare su finanziamenti politici e una rete di supporto che spesso manca dall’altra parte, dove si preferisce fare una cena di gala con una celebrità che dice “Trump brutto” anziché aiutare chi crea comunità dal basso.
Inoltre, come abbiamo visto, gli algoritmi delle piattaforme non solo premiano chi utilizza toni aggressivi e il drama, penalizzando chi cerca sfumature e ragionamenti complessi, ma a volte sanzionano in modo mirato chi tratta certi temi, lasciando campo libero a molte altre forme di disinformazione.
Poi c’è la questione interna: mentre uno schieramento tende a essere compatto e a ignorare le differenze, l’altro lato è sottoposto a un costante scrutinio fatto di call out, polemiche e precisazioni che cozzano con la pretesa di celebrare le rispettive differenze.
Lo stesso vale per il pubblico di riferimento. Se da una parte basta dire che i videogiochi woke fanno schifo e invocare il ritorno di una Lara Croft con le curve esagerate, dall’altra chi ti segue è attentissimo a ogni sfumatura, e se non dici le cose perfettamente come dovresti, rischi di essere messo da parte. Se c’è un punto in cui la cancel culture sembra funzionare è soprattutto nel cancellare non tanto chi promuove idee deprecabili, ma in chi non parla esattamente come vorremmo noi.
Aggiungo che è vero anche il contrario. Se vuoi creare una comunità e chiedi almeno di non usare epiteti razzisti o uscite veramente grevi difficilmente quella comunità crescerà, soprattutto se è una comunità legata ai videogiochi, perché in qualche modo quelle comunità sono legate a un certo registro comunicativo. Guarda caso sono anche quelle comunità dove trovi la gente a sospirare perchè i videogiochi prima erano tutti più belli e meno politici.
Infine, un grande classico: combattere la disinformazione è dieci volte più difficile che spargerla. Contrapporsi a idee false, comode, ben finanziate e supportate è estenuante, e farlo con pochi soldi, in perenne burnout e con la paura di usare le parole sbagliate è estremamente complesso.
In breve, il buon giornalismo e i content creator che non urlano, non schivano i temi politici o fanno trash affrontano lo stesso problema di sempre della Sinistra.
Ripensavo a queste cose proprio oggi mentre giocavo a Dragon Age: Veilguard, gioco che ancora prima di uscire si è beccato tonnellate di merda sia per lo stile visivo, ritenuto troppo leggero e lontano dall’approccio dark del passato, sia per alcune scelte inclusive, tipo la possibilità di creare personaggi trans con tanto di cicatrici sul seno. E parliamo di un gioco in cui personaggi queer erano presenti già da tempo.
Il risultato è che oggi è praticamente impossibile dare un parere sul gioco senza infilarsi in un guazzabuglio di polemiche tra gente che piange perché la cultura woke è cattiva, gente che ti dà dell’omofobo se critichi il gioco e gente che ti dà del buonista se invece dici che ti è piaciuto. Ed è solo l’ennesima volta che succede.
Link!
Mi hanno fatto una bella intervista perché erano belle le domande.
Su N3rdcore si è parlato di Substance, l’horror che sta dividendo pubblico e critica, di una nuova coalizione per i manga europei chiamata ISSHO e ovviamente, c’è una nuova puntata di Ship Happens!
Io invece nell’ultima puntata di Altri Mondi parlo di Empire of Ants e del mio amore per le opere con le formiche.
E ovviamente vi segnalo anche gli altri due vertici di un magico triangolo che messi così raccontano tanto del giornalismo videoludico di fronte alla PS5 PRO.
Alan Moore personaggio davvero incredibile. Non credevo esistesse qualcuno con un interesse per i giochi con le formiche! Il mio è iniziato con Ant attack giocato su Spectrum :)
"combattere la disinformazione è dieci volte più difficile che spargerla"
Il famoso fenomeno del gish gallop, come spiegato dal buon Eugenio:
https://www.instagram.com/reel/CuhegWVtOPO/