Bruciarsi e ripartire
Ovvero, breve racconto di come sono andato in burnout facendo il lavoro che amo
Non chiedetemi perché ma ogni tanto penso ai siti che galleggiano a faccia in giù su internet quando vengono abbandonati perché sono finiti i soldi, magari a pochi anni da annunci in pompa magna e decisioni strategiche. Mi riferisco ad esempio all’edizione italiana di Mashable, ma ormai dire anche a Vice, Motherboard, Munchies e tutto ciò che faceva parte di quell’universo là.
Sono come edifici vuoti in cui tutto è in ordine, ma non ci vive più nessuno. Spettrali e affascinanti. E poi ci sono situazioni differenti, come il caso di Prismo, rivista culturale interessante di qualche anno fa (e dico interessante perché mi fecero scrivere un pezzo sui Bitmap Brothers, ovviamente) che poi è stata assorbita ne Il Tascabile. In questo caso l’edificio è stato trasformato in altro.
Vogliamo parlare un secondo di questa galassia di progetti culturali più o meno grandi? A volte mi sembrano come quelle isole vulcaniche che appaiano all’improvviso nel mare. Se non fai parte del movimento magmatico che le genera te le trovi davanti, con già i pezzi scritti e i collaboratori pronti.
Tante piccole isole ferdinandee che vengono assemblate in base al giro di conoscenze.
Da noi funziona così, credo di averlo già detto; non sperate di trovare offerte di lavoro classiche, tutto si muove in un sottobosco di conoscenze, contatti, segnalazioni, amicizie. Progetti che devono essere tenuti segreti fino all’ultimo momento, ma di cui alcuni sanno sempre tutto.
Non è necessariamente un male, perché in qualche modo è una soluzione per lavorare con reti di contatti affidabili, ma il rovescio della medaglia è sempre il solito: il rischio di un appiattimento del panorama, sentire sempre le solite voci che scrivono un po’ di tutto, la creazione di circolini reali e virtuali che difficilmente mettono la testa fuori dal loro giardino.
E lo dico consapevole di averci scritto e scriverci spesso eh.
Anche perché, se avete modo di entrare in confidenza, questi spazi sono senza dubbio un buon modo per arrotondare: sono realtà editoriali affamate di buone idee, pagano tendenzialmente bene, tra gli 80 e 100 euro (ma raramente vi toccherà più di uno o due pezzi al mese) e comunque “fanno curriculum”. Ma del mito della visibilità e dell’autopromozione magari parliamo la settimana prossima.
Dal fuoco alle ceneri
“Ero uno capace di scrivere almeno due pezzi buoni al giorno in certi momenti e adesso, se va bene, esulto calcisticamente se riesco a farne due a settimana che non mi fanno schifo.”
Scrivevo queste righe nella prima puntata di Heavy Meta, raccontando come il progetto nascesse per ritrovare la passione e il mestiere della scrittura dopo un periodo particolarmente stressante che aveva quasi del tutto prosciugato le mie capacità di produrre velocemente un testo.
Ora vi racconto un po’ com’è andata.
La prima volta in cui ho sentito parlare di burnout, anzi di sindrome da burnout, riguardava l’ambito medico. Il termine viene di solito indicato per tutti quei lavori particolarmente stressanti in cui è importante che ci sia un momento di decompressione perché il carico fisico ed emotivo sono particolarmente forti.
E se dalla stanchezza fisica siamo programmati a riprenderci in modo più o meno automatico, quella mentale è molto più difficile da trattare.
Non basta un bel sonno per smettere di odiare ciò che fai.
Ma che succede se il lavoro non c’è, non è come speravi o sparisce mentre inizi un percorso? Se il punto non è che lavori troppo, ma che lavori senza che ci sia alcuna possibilità di migliorarti o se addirittura poi il lavoro sparisce?
Cosa succede se ami il tuo lavoro ma poi quell’amore si logora, come nelle più banali relazioni che finiscono nell’indifferenza reciproca, perché il tuo lavoro cambia come un tizio che sembra gentile ed entusiasta per poi rivelarsi apatico e tossico? Se mancano fiducia, senso di comunità e riconoscimento?
Secondo gli studi ci sono quattro fasi nel burnout, la prima è quella dell’entusiasmo idealistico in cui fai il tuo lavoro, lo fai con passione ed entusiasmo, pronto a spaccare il mondo, esattamente come ero io dieci, quindici anni fa. Mi ero fatto le ossa nel giornalismo locale, avevo mosso i primi passi in quello tech/videoludico, avevo messo nel curriculum i miei primi eventi all’estero, iniziava entrare qualche soldo. Sarebbe stata dura, ma sarebbe stata.
Sono stato sempre mosso, e credo di esserlo ancora, da una sorta di profondo idealismo e forse da un’eccesiva dose di ego. Ho sempre pensato che lavorando bene, lavorando sodo, sacrificandomi quando era necessario e continuando a spingere in avanti questo masso ce l’avrei fatta. Era naturale, era il mio destino manifesto.
Per anni è andata così, poi in pochissimo tempo sono arrivati gli altri step: stagnazione, frustrazione e apatia.
La sveglia è arrivata negli ultimi anni per due motivi: da una parte la rapidità con cui alcune condizioni di lavoro sono cambiate, dall’altra la presa di coscienza di essere arrivato in cima a una montagna pensando ci fosse il rifugio e in cima non c’era niente, se non il costante bisogno di fare quello che stavo già facendo cercando di propormi sempre di più mentre persone che ritenevo meno competenti se ne stavano al calduccio dei loro impieghi blindati.
Per anni avevo ignorato i segni dello stress a cui stavo andando incontro, perché anche i compiti meno piacevoli facevano comunque parte del percorso. E in fondo mica lavoro in miniera, si tratta di scrivere.
E quindi scrivi, fai tardi la notte, accetta più o meno qualsiasi commissione, impara a ignorare gli insulti su internet di chi vorrebbe fare il tuo lavoro e quindi ti odia a prescindere o di chi semplicemente si diverte così. E soprattutto, scrivi ovunque fatti conoscere, anche se ora pagano poco magari poi pagheranno di più.
Nel frattempo, il giornalismo videoludico delle riviste specializzate si impoveriva sempre di più e diventava uno spazio tossico, competitivo e, per me, chiuso. La fase “mi impegno per due spicci e qualcosa accadrà” era finita. Non aveva senso beccarsi quel livello di aggressività e sopportare quei ritmi per cifre ridicole.
Andava molto meglio sul fronte della generalista, dove anche se a fatica i risultati si vedevano. Scrivevo stabilmente in almeno un paio di spazi importanti. I pezzi erano letti, facevo un sacco di viaggi e le opportunità non mancavano. Non che navigassi nell’oro, ma funzionava, pur nella crisi generale del giornalismo.
Poi piano piano tutto questo si è lentamente fermato. Prima uno dei miei referenti interni in una testata ha cambiato lavoro e quelli rimasti mi hanno lentamente ridotto gli spazi finché non ha avuto più senso rimanere.
Poi anche altre spazi hanno chiuso i cordoni e fatto capire che, sì, forse potevi continuare a scrivere, ma non ci sarebbe mai stato modo di diventare più che l’ennesimo tizio pagato a pezzo.
È raro in questo settore che tu venga sbattuto fuori, devi proprio fare qualcosa di brutto, è molto più facile creare delle condizioni di lavoro proibitive finché non sei tu ad andartene. Gaslight puro e semplice.
Prima che arrivasse il lockdown ero già abbastanza logorato dalla consapevolezza di aver incontrato un muro professionale.
Semplicemente non volevo ammetterlo. Ci sono voluti un altro paio di tagli improvvisi dei freelance in redazione arrivati senza che ci fosse quasi comunicazione per mettermi in ginocchio. Ho smesso di proporre pezzi, ho smesso di voler cercare qualche idea interessante o pensare a progetti e soluzioni. Facevo quello che c’era da fare col motore al minimo e via.
E nel frattempo scrivevo sempre meno, e avevo sempre meno voglia di farlo.
Non volevo neppure farlo su N3rdcore. Anche perché nel frattempo promuovere una rivista di cultura pop è diventato impossibile, a meno di non decidere di sacrificare ogni forma di contenuto che non fossero articoletti seo, notizie che notizie non lo erano, contenuti snack o farsi divorare da rumor incontrollati o, in alternativa, diventare il megafono acritico di ogni azienda.
C’è un articolo su Aftermath che parla di come i giornalisti videoludici finiscano a lavorare nelle aziende di videogiochi che si concentra in parte su come è cambiato il settore. E c’è un passo che spiega la situazione molto bene.
“Especially in the past handful of years, the landscape of games journalism has shifted dramatically, focusing on guides and other forms of service journalism while in-depth reporting and criticism get sacrificed at the altar of the daily grind. It’s the logical endpoint of a failing ad market, relentless penny pinching, and corporate hyper-cautiousness. If you’re a writer or reporter who wants to probe deeper, it’s difficult to find motivation to stick around when the job is no longer what you signed up for – and that’s when you can even find a job at all”.
Credo di aver usato le mie ultime energie per chiudere il libro, un momento bellissimo in cui sono riuscito a riappropriami della scrittura, dei suoi riti e di un certo isolamento dal rumore e dall’ansia di produrre qualcosa in breve tempo che funzionasse per un pubblico distratto ma pronto a metterti sulla forca.
All’inizio del 2022 ero totalmente a pezzi, mentalmente e fisicamente, ma non volevo ammetterlo. Anche perché la parte più subdola del burnout nel mio contesto lavorativo e che ti dici che è colpa tua.
Se solo ti fossi impegnato di più, se solo fossi stato più gentile, se solo ti fossi fatto più contatti, se avessi fatto altre scelte, se avessi magari proprio deciso di farla finita col giornalismo anni prima, se non rispondevi male a quel tizio, se, se, se.
Ho continuato a scrivere, ovviamente, ma l’ho fatto con sempre più fatica e sempre meno piacere, salvo rari casi in cui ci tenevo particolarmente. Soprattutto, ho smesso di cercare altri spazi di muovermi, di creare contatti.
Poi, piano piano, ho iniziato a capire che dovevo prendermi cura di me o sarebbe finita male.
Ne sono uscito oggi, dopo due anni? Onestamente non lo so. Però forse dopo le fasi del burnout ho affrontato le fasi del lutto per un lavoro che non esiste più o che sta lentamente morendo. Sono sceso a patti di aver fatto un bel percorso in cui mi sono divertito tantissimo e forse mi sarei potuto godere di più con una sana dose di realismo, perché i segni c’erano tutti.
Nel frattempo, grazie anche all’aiuto di specialisti, ho imparato ad ascoltarmi di più, a capire come funziono, come concentrarmi, come tenere traccia del mio lavoro. Come perdonarmi e come tenermi sotto controllo quando ce n’è bisogno.
Molte delle cose che ho imparato su di me le ho messe qua, su Heavy Meta, che senza dubbio ha avuto un ruolo importante in questo percorso. La fiducia ricevuta, gli attestati di stima, gli abbonati che crescono di settimana in settimana, il confronto con altre persone che scrivono mi ha fatto molto bene. L’aiuto di alcune persone idem.
“Come conto di uscirne? Con un po’ di Karma, sono convinto che facendo del bene, aiutando chi magari cerca qualche consiglio o ha voglia di analizzare come funziona oggi il mercato (bada bene: mercato) delle notizie e dei contenuti i miei “muscoli della scrittura” torneranno a funzionare”
Lo scrivevo sempre nel primo numero. E devo dire che quei muscoli piano piano hanno ripreso a funzionare, un po’ come i miei muscoli veri che ho ripreso a usare in palestra.
Più che altro ho capito che uscirne non voleva dire tornare come prima, quello che scrive due pezzi al giorno come se niente fosse, perché non sono neanche quello che giocava a rugby e gestiva dolori e acciacchi come se niente fosse.
Oggi scrivo in modo diverso, più lento, consapevole delle secche e dei marosi, a volte scrivo ancora cose che non mi piacciono e che devo scrivere, ma la prendo diversamente rispetto a quando doveva essere uno scalino verso una salita. Ora sono solo sassolini in una passeggiata lungo il fiume.
Non vivo più il mio percorso come una salita, ma come una progressione rettilinea con alti e bassi.
Oggi posso dire che sto bene e scriverlo, dirvelo, è una sensazione strana, ma piacevole. Scusate se sono stato un po’ lungo e forse troppo personale.
Oggi niente link e cose particolari, che vado di fretta, vi segnalo solo tre pezzi su N3rdcore che potrebbero piacervi.
Tanz ha fatto una bella analisi delle coppie moderne partendo da Blade Runner 2049.
Felice vi consiglia gli Aghi d’Oro.
Io un manga che parla di timidezza, rapporti umani e, forse, anche di autismo.
Mi ritrovo con le dovute differenze in tanto di quello che dici. Ho lavorato per anni con Edizioni Master, non so se li ricordi. Ho macinato centinaia di articoli, rece, libretti di DVD, ho lavorato con persone meravigliose come Alessandro “Doc” Apreda, poi via lui… hanno iniziato a fare gaslightning proprio come hai detto tu. La differenza è che io comunque un impiego di base e di backup lo avevo, quindi ho smesso semplicemente di scrivere per diversi anni. Poi è nato il bambino, tante cose in mezzo… e adesso sono di nuovo qua. Vabbè scusa il pippone… comunque sei molto relatable, come sempre! 😉
Ho letto questa tua newsletter, scritta molto bene come sempre, mentre mi trovavo seduto su un panettone davanti a un'officina. Ruota dell'auto bucata, pomeriggio di commissioni saltato. Così ho dovuto passare mezz'ora ad aspettare che mi venissero a prendere e portare a casa. Da solo. Ho realizzato che era il primo momento di calma da settimane, spese a usare ogni minuto per scrivere qualcosa. Pensa te se serviva una gomma bucata.