Controstorytelling, ovvero alcuni aspetti noiosi del fare il giornalista
Son tutti bravi a mostrare i viaggi, i regali e la vita dei nomadi digitali che scrivono dalle spiagge.
Quando non partecipo all’anteprima di un film mi diverto spesso a cercare di capirne il valore dalle parole di chi invece è stato invitato. Di solito è un buon esercizio per capire chi può parlare più o meno liberamente e chi invece ha paura di non essere più invitato.
La premiere di Cannes di Indiana Jones e il quadrante del tempo è un buon esercizio da questo punto di vista perché ci sono un sacco di pareri contrastanti, persone che vorrebbero forse affondare più il colpo ma se ne dispiacciono e altre che preferiscono sviare il punto, concentrandosi sull’emozione di vedere di nuovo Harrison Ford.
Un parere mi ha colpito particolarmente “adesso possiamo dire che c’è un quarto Indiana Jones, perché di due ne fanno uno”. Mi sembra una elegante stroncatura. Di solito, quando i pareri non sono unanimi, preferisco guardare a quelli negativi, così nel caso ho una buona sorpresa.
Di base però due regole sono da tenere di conto:
1) Tarate il vostro metro di giudizio stando sempre lontani da chi è sempre entusiasta o non stronca mai niente. Ma anche da chi stronca tutto. E stando lontani da chi si è fatto un seguito seguendo il treno del periodo Marvel.
2) Non fidatevi mai dei giudizi chi è stato invitato all’anteprima giusto per fare un reel o qualche foto su Instragram.
Fin del preambolo.
Con la puntata di metà settimana, quella dedicata agli Appunti, ho iniziato un po’ a parlare di storytelling, parola cardine dell’umanità e soprattutto della produzione di contenuti.
Che tutto debba diventare storia, narrazione, protagonismo non lo impariamo oggi, ma oggi senza dubbio viviamo in un periodo particolarmente centrale per la narrazione. Quando la gente scherza dicendo “oggi vorrei essere solo un personaggio secondario, non il protagonista” in qualche modo si inserisce in questo flusso che sembra quasi obbligarci al racconto continuo di noi.
Racconto che, di solito, dev’essere coerente con l’immagine che vogliamo dare, un’immagine che, quando si fa il mio lavoro, dev’essere spesso vincente, propositiva e proiettata verso il futuro.
Abbiamo fatto questa cosa perché siamo fighi, perché siamo i primi ad averla pensata (non è mai vero, non fidatevi mai di chi dice così, vale quanto la parola “azienda leader”, e chi usa questa narrazione di solito è solo molto furbo), perché siamo amati per come scriviamo. Eccoci che lavoriamo impegnati, professionali, mitici e lanciatissimi.
Ma, dio mio, chiunque abbia fatto questo lavoro sa benissimo che ci sono un sacco di aspetti decisamente molto meno spettacolari, noiosi e ordinari di cui raramente si parla, ma che occupano la maggior parte del tempo.
So che per tanta gente potranno sembrare dei first world problems ma hey, ogni problema è un problema quando ci sei dentro. Lascio fuori il discorso dei soldi perché quello lo do per scontato e sono abbastanza sicuro che, come ogni lista, anche questa non sia esaustiva.
E sì, anche raccontare i problemi e i dietro le quinte è storytelling, non si scappa.
La mancanza di un senso di progressione
Scrivere è fare i compiti a casa tutta la vita, che tu scriva, parli, faccia video e così via. Cosa facevi a scuola? Ascoltavi, studiavi e ripetevi cosa avevi imparato. In questo lavoro fa più o meno la stessa cosa, solo che al posto dei voti ci sono i commenti di chi ti dice che non hai capito niente di una cosa che lui non ha ancora provato.
In questo continuo loop di assimilazione e produzione a volte è difficile capire dove stai andando, soprattutto nel qui e ora. È un lavoro che a volte procede a salti, o baratri, improvvisi, in cui se non ti fermi ogni tanto a renderti conto di quello che stai facendo è complesso capire da dove sei partito e dove stai arrivando.
So che sembra assurdo ma ancora oggi, pur avendo ben presente da dove sono partito e dove sono ora faccio molta fatica a capire se mi sono spostato in avanti, se l’ho fatto di lato o cosa. Questo perché la condizione del freelance è strana e non sai mai se il posto in cui sei è il frutto delle tue scelte o del tuo tentativo di trovare nuova acqua nel deserto.
Poi c’è la questione di come il nostro lavoro sia non solo astratto, digitale, difficilmente misurabile anche quando si hanno le metriche degli articoli, ma anche in un circolo continuo. Siamo onde che si infrangono costantemente sulla battigia della produzione di contenuti e fatichiamo a percepire il lavoro fatto.
Non abbiamo fatto un tavolo, una sedia, curato dei pazienti, tirato su un muro o archiviato 1000 pratiche. Abbiamo queste bozze, questi articoli scritti che stanno là. Se riempi un magazzino o cucini dei piatti hai fatto qualcosa, lo sai, lo sa il tuo inconscio, ma evidentemente il nostro inconscio non è abituato a impilare l’astratto.
E a volte ti senti un po’ stronzo.
Cercare lavoro mentre lavori
Non sei al sicuro, non lo sei mai, a volte perché soffri di sindrome d’accerchiamento a volte perché alla quarta volta che ti tagliano il budget con un giorno di preavviso credo sia normale sviluppare un po’ di paranoia.
E quindi mentre stai lavorando ti tocca pensare tre o quattro mosse più avanti, cercando di capire cos’altro puoi impilare nella sfilza di cose che già devi fare, cercando però di non farti prendere dall’ansia di prendere qualsiasi lavoro perché poi ti ritrovi dopocena a finire quell’articolo a cui avevi detto di sì due mesi prima quando ti sentivi scarico e in paranoia, prima che tu riempissi il mese di cose da fare, viaggi, eccetera.
Non che i lavoratori dipendenti e contrattualizzati non siano a rischio, ovvio, ma fare il freelance vuol dire tenere sempre occupata una percentuale del tuo cervello a capire cosa farai fra qualche mese.
E il corollario di questa situazione in molti casi è “cercare di farsi pagare mentre lavori”. Che forse è ancora peggio.
Sbobinare
Credo che questa attività meriti una categoria tutta sua, perché le interviste sono belle almeno quanto è noioso mettersi là a sbobinare, sintetizzare, dipanare il discorso diretto in concetti da mettere su carta.
Sì, lo so, ci sono applicazioni che ti aiutano, ma è un aiuto parziale, che a volte scombina le parole ancora di più, costringendoti a tornare sul registratore per capire se effettivamente era stata detta quella cosa.
È un’attività anticreativa, che porta via tempo e che spesso richiede il doppio rispetto a un articolo normale.
Ogni volta che mi vedrete felice e sorridente per aver fatto una intervista, magari corredata da un selfie sorridente, sappiate che dietro quella foto c’è almeno un pomeriggio con la faccia torva. Almeno.
Aspettare
Nuotiamo nel mare delle narrazioni occupate. Dobbiamo sempre fare qualcosa, e se non stiamo facendo qualcosa pensiamo a cosa possiamo fare perché se non facciamo qualcosa evidentemente c’è un problema. Ma la verità è che gran parte di questo lavoro lo si passa in attesa. In momenti che non sono sotto il nostro controllo e in cui vorremmo prendere per il bavero chi non ci dice niente e forzarlo a parlare.
Attesa che ti diano l’ok per il pezzo, così puoi organizzare il tuo tempo e magari non scriverlo stanotte per domattina. Attesa che qualcuno risponda all’invio del tuo CV, così la smetti di tormentarti. Attesa che il PR ti risponda (e anche noi li facciamo attendere eh) sperando che si sblocchi quella cosa e che non ci abbia già pensato qualcun altro. Attesa che il pezzo vada su, sperando che non ci sia da lavorarci di nuovo.
La verità è che ci sono un sacco di tempi morti e passiamo il tempo a riempirli.
Scrivere
Ma come???
Ovviamente non sto parlando del fatto che sia brutto scrivere, ma che a volte ti tocca farlo in situazioni assurde e con tempi spesso feroci. Potrà sembrare assurdo ma non sempre la macchina del marketing è interessata a farti scrivere nelle condizioni possibili o ha modo di farlo. Ogni press tour, ogni lavoro interessante in qualche modo ha un contrappasso.
O ti tocca scrivere alle una di notte perché in Italia si stanno svegliando e tu sei dall’altra parte del mondo, fottuto dal jet lag. O devi scrivere in aereo col bambino dei vicini di posto che ti urla nelle orecchie e tu sei stanco, ti sei svegliato alle cinque per prendere sto volo, ti fa male la testa, hai mangiato di merda e devi trovare una concentrazione (di solito sono i pezzi che vengono meglio, però).
E poi ci sono tutti quei pezzi noiosi, tediosi, in cui non riesci a trovare alcun guizzo e ti trascini grazie al mestiere che ti sei fatto, nuotando nella melassa di una roba che scrivi solo perché almeno è un altro pezzo pagato.
Voi mi direte “cazzi tuoi che ti sei scelto sto lavoro e volevi solo i gadget e i viaggi senza il resto”
E avete pure ragione.
Linkini!
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"Cercare lavoro mentre lavori" è la mia frustrazione principale 😅