Appunti per un corso di scrittura - 10
Siamo già alla decima puntata? Allora è il momento di parlare di storytelling! La parola che domina il mondo da sempre.
Quante volte avete sentito la parola “storytelling?” se fate il mio lavoro tante, così come avete visto un sacco di gente mettersi la targhetta “storyteller” (credo di averlo fatto anche io) per identificare la propria professione o anche solo le proprie qualità.
Ma come mai oggi, e per oggi intendo almeno una decina di anni, è diventata così importante questa parola?
In parte credo che la centralità dello storytelling sia da attribuire all’ascesa del New e del Gonzo Journalism di cui parlavo commentando il fallimento di Vice. I fatti non ci bastano più e, mi viene da dire, forse non ci sono mai bastati. Le storie, le narrazioni, il piglio emotivo hanno sempre avuto grandissima presa sull’essere umano.
Far parte di una storia, di una narrazione, è un po’ lo stesso impulso che ci spinge verso la religione, ci fa sentire parte di qualcosa, meno banali, meno degli scheletri rivestiti di carne animati da impulsi elettrici che si muovono a velocità pazzesca su un sasso nel vuoto cosmico.
Alcune di queste cose le avevo già scritte in questa puntata di Heavy Meta.
Per iniziare a capire l’importanza della narrazione nella storia umana posso consigliarvi di iniziare da “L’istinto di Narrare” di Gottschall, ma anche “L’eroe dai mille volti” di Campbell, così come posso consigliarvi “Eroine” di Marina Pierri per un focus sugli archetipi femminili, “La scienza dello storytelling” di Storr e “Il Viaggio dell’Eroe” di Vogler ma anche “Story” di Robert McKee. È veramente infinita la lista di libri che trattano l’argomento. Anche se la scuola migliore resta quella di leggere la realtà attorno a voi dopo aver appreso alcune nozioni.
Oggi lo storytelling sembra diventato l’unico modo in cui riusciamo a raccontare qualcosa, che si tratti di pubblicità, giornalismo, noi stessi. In un mondo distratto, le emozioni forti sono forse l’unico modo per ottenere un po’ di attenzione, a parte i filmati strani e assurdi di gente che pulisce tappeti su Tik Tok, ovviamente.
A volte, tuttavia, ne siamo così nauseati che nascono inevitabilmente progetti che cercano in qualche modo di tornare a un orizzonte neutro, vedi Il Post, in cui l’attenzione alle parole è fondamentale.
Sì, perché basta una parola per far partire una storia. Se parliamo di “battaglia” contro una malattia a cui “non ci arrendiamo”. Se parliamo di “scontro al ballottaggio” per descrivere una elezione.
Imparare a conoscere e riconoscere lo storytelling è essenziale non solo per padroneggiarlo per lavoro, ma per capire quando viene usato contro di noi. Per ottenere il nostro voto, i nostri soldi, la nostra compassione. “Chi racconta una storia governa il mondo” è una citazione attribuita a moltissime figure storiche ed è assolutamente vera, così come è noto il rapporto conflittuale che Platone aveva con loro le storie e il loro rigetto ne La Repubblica.
Mi sa che dovrò dedicare allo storytelling più di una puntata.
Le funzioni della narrazione
Le parabole, i poemi omerici, le serie tv, i messaggi pubblicitari, un creator che racconta come ce l’ha fatta da solo “anche contro gli hater”, gli imprenditori poverini che dicono di non trovare più nessuno che vuole lavorare seriamente, i politici che instillano paura, sono tutte categorie che usano le storie e, spesso, le usano tutte nello stesso modo.
Riassumendo, le storie possono avere una o più di queste funzioni.
Identitaria: ovvero la creazione di una identità, collettiva o personale, un mito fondante, un qualcosa che dica “io sono questo/noi siamo questo/la nostra azienda è questo”. Un racconto delle origini, che siano personali o globali. Potrei ad esempio raccontarti la mia formazione di “appassionato dei videogiochi” come ho fatto in Vivere Mille Vite (messaggio promozionale) come una rapporto padre-figlio, ma anche come qualcosa che mi ha sempre accompagnato nella vita.
Comunitaria: una funzione legata a quella precedente. Raccontare vuol dire che anche mettere a disposizione degli altri le proprie storie, così che anche loro possano rispecchiarsi al loro interno e trovarci un proprio senso. La mia storia è la tua storia. Anche qua, col libro, un sacco di gente mi ha scritto “anche per me è andata così, anche io ho vissuto questo” e diventiamo parte della medesima comunità. A volte, semplicemente, ci piace la stessa storia, ed è così che nascono i Fandom.
Empatica: non è obbligatorio che una storia susciti emozioni, però aiuta, e a volte una storia vuole solo fare questo: emozionarci, farci arrabbiare, ridere o piangere, perché i fatti sono belli ma le emozioni sono efficaci. Quante volte si parla di “acquisto emozionale”? Quante cose avete comprato perché vi hanno emozionato o volevate far parte di quella storia?
Formativa: parabole e sermoni servono soprattutto per trasmettere nozioni e precetti morali, così come molte fiabe. Le storie possono essere grandi veicoli di conoscenza. Ciò che impariamo nelle storie possiamo usarlo nella vita reale. Ad esempio, perdonare gli altri come il figlio prodigo o non fidarsi troppo delle apparenze, come avrebbe dovuto fare Cappuccetto Rosso. In qualche modo lo storytelling può essere anche aspirazionale: ti racconto la mia storia così che tu possa migliorare la tua vita come me.
Transgenerazionale: pensiamo al Giorno delle Memoria, a Liliana Segre che racconta le sue terribili vicende o, per essere meno drammatici, pensiamo ai vostri nonni che vi raccontano cosa facevano quando erano bambini loro o a voi che cercate di far piacere Guerre Stellari ai vostri figli. A volte le storie sono ponti fra le generazioni che possono creare un forte senso di continuità. Non siamo soli, siamo parte di un flusso.
Ecco perché le storie fanno tanto gola, sono coltellini svizzeri della creazione di senso, con tanti strumenti con cui raggiungere molti scopi.
Come suscitare le emozioni
Ovviamente non posso pretendere di spiegarvelo così, in qualche riga. Mica sono scemo o così presuntuoso. Le emozioni sono cose complicate, soprattutto oggi in cui quelle più veicolate dai social sono la rabbia o la pietà e viviamo in un periodo di forti contrasti dove ti viene chiesto subito di schierarti, anche di fronte a temi complessi. Ci sono fior fior di manuali di scrittura creativa che possono aiutarvi.
Quello che posso dire però è che per suscitare emozioni bisogna in qualche modo conoscere le persone per cui scriviamo, o almeno la maggior parte di esse. Dobbiamo anche essere aperti al fatto che possa andare male e che quell’emozione non venga scatenata, ma che le reazioni siano esattamente all’opposto.
Di sicuro per farlo bisogna in qualche maniera esercitare una forma di empatia e avere un senso quasi paranoico per il cringe, per il rischio di cadere dalla parte opposta e diventare patetici. Tuttavia, sappiate che patetici, per qualcuno, lo sarete sempre. Di sicuro se quell’emozione non contiene un po’ di sincerità siete spacciati.
Quello che posso dire, per esperienza, è che le emozioni scaturiscono dalla conoscenza, dal mettersi in gioco. Le emozioni sono percorsi.
Si inizia sempre con qualcosa di evocativo, vago, lontano, ma in qualche modo familiare. Un cenno storico, un gesto umano, un ricordo condivisibile.
Su quel ricordo andremo a costruire la nostra emozione e il nostro racconto. Bisogna prendere quella prima immagine e trasformarla nella pietra angolare. Immaginate la classica narrazione degli studenti nel garage che fondano la Apple, oppure il creator preso in giro dagli amici e rimproverato dai genitori che ama così tanto ciò che fa che poi ha successo.
Una volta creata la nostra struttura (e di strutture ne abbiamo parlato) ricordatevi sempre di lasciare un buon ricordo, qualcosa che porti i lettori là dove volevate.
Soprattutto, ricordatevi che le emozioni e le storie vanno introdotte e usate con cautela e soprattutto, non dovrebbero mai e poi mai cacciate in gola del nostro pubblico con una sottolineatura evidente.
So che questo non sembra il modo in cui vanno le cose, perché viviamo costantemente bombardati di sensazioni urlate, patetiche, kitsch e così via. Ma anche l’emozione più urlate deve lasciare spazio a chi la riceve per crescere.
Cercherò aiutarmi con un esempio.
C’è una storia attribuita a Hemingway che è probabilmente falsa, ma facciamo finta di crederci. Si dice che un giorno fosse con degli amici e si vantasse di essere in grado di suscitare emozioni anche con una storia brevissima, di poche parole.
Gli amici vennero a vedere il bluff e fecero una scommessa: forza, emozionaci con sei parole.
Lo scrittore prese un tovagliolo e scrisse.
Vendesi: scarpe da neonato, mai indossate.
Gli amici pagarono subito la scommessa.
Sono pochissime parole ma bastano per creare subito un gancio emotivo in cui chi legge può fantasticare, inserire le proprie emozioni, il proprio vissuto. Nello storytelling dovete lasciare un po’ di spazio a chi legge perché possa sovrapporci la sua di storia, anche quando raccontate di voi. Altrimenti il trucco borioso dell’autoesaltazione si vede troppo.
Insomma, non esiste una buona storia senza un po’ di mito, e il mito, non si spiega. Altrimenti è come spiegare le barzellette o, come diceva Disney, sezionare una rana. Hai capito come funziona la rana, ma quella è morta.
E figuriamoci che ancora neanche ho parlato della parte visiva, aiuto.