La cosa più difficile
Il giornalismo è spesso una questione di ego, e, in questi anni sempre più difficili, non basta semplicemente fare il tuo lavoro, ma a volte dovremmo ricordarci di non stare davanti alla notizia.
Sono al mare e di solito il mare da quarantenne prevede un alternarsi di passeggiatine in acqua e letture finché non è socialmente accettabile bere alcolici col sole che tramonta.
Quest’anno no perché sono stato deputato da mio nipote a compagno di avventure, un ruolo con svolgo con dedizione, soprattutto quando mi chiede di andare alla piattaforma dove non si tocca per fare i tuffi.
D’altronde ha sette anni, è il momento in cui piano piano la tua orbita si allontana impercettibilmente dai genitori e il tuo mondo sblocca un sacco di nuove zone, come quando sali di livello in un videogioco.
E io nel videogioco devo essere il compagno gestito dal computer che ti cava d’impaccio e, soprattutto, che ti tira su dopo il tuffo o ti fa riposare quando ti prendo un po’ d’ansia perché stai nuotando senza sentire la sabbia sotto i piedi.
Oggi però il suo loop di tuffo alla Ronaldo-tuffo bomba-tuffo a candela-tuffo di testa è stato interrotto da un gruppo di ragazzi più grandi che sono arrivati urlandosi dietro come fai in quell’età dove inizi ad affermarti anche in base alle tue capacità di insultare e venire insultato. Non starò qua a discutere ora sulla mascolinità tossica, perdonatemi, il sole è troppo bello mentre tramonta.
Questi ragazzi che si tuffavano facendo capriole, giravolte e acrobazie, sono improvvisamente diventati più importanti di tutto. Loro si muovevano e si spingevano e lui rimaneva fermo, in piedi, a fissarli, come si fissa un animale raro che improvvisamente decide di stare vicino a te.
“Ma non vuoi tuffarti?” “No, voglio vedere come lo fanno loro”.
“Zio, posso chiederti una cosa?” “Dimmi” “Anche io diventerò così alto e cosi forte? Potrò fare anche io queste cose?” “Sì, ti servirà dell’allenamento ma sicuramente potrai farlo anche tu e il tuo corpo cambierà, fidati, già sei alto per la tua età”.
Alla fine siamo sempre ossessionati dai corpi, i nostri, quelli degli altri, quelli che vorremmo diventare, quelli che ci danno fastidio.
Scusate questa cold opening un po’ così.
Il punto non sei tu
D’altronde dovessi occuparmi di tutto quello che ho letto, visto e ascoltato nella copertura giornalistica dei Giochi Olimpici probabilmente non scriverei di altro fino a Natale.
Non lo farò, sia perché in molti casi direi sempre le stesse cose già dette mille volte su un giornalismo sensazionalista, antiquato, alla ricerca disperata di qualcosa che crei contrapposizione, dibatti e polemiche, sia perché rischierei di non dover parlare d’altro almeno fino a quelle invernali.
Però ripensavo giusto ieri a quel brutto siparietto che ha coinvolto Benedetta Pilato e i commentatori RAI, incapaci di gestire il fatto che un’atleta potesse tutto sommato essere felice anche del quarto posto.
Una storia su cui si è già scritto tantissimo che ci mostra quanto stiamo lentamente ma costantemente cambiando gli approccio con il concetto di competizione e di quanto le persone più giovani tutto sommato alla fine se ne freghino se ai nostri occhi sembrano più deboli, vi siete mai chiesti come sembrate ai loro?
Quello che mi incuriosisce però di questa storia non è tanto la logica tradizionalista tutta votata alla vittoria che vede nel secondo il primo degli sconfitti ma l’aspetto narrativo e giornalistico di quel momento.
Perché chi fa giornalismo a volte si dimentica una cosa fondamentale, e l’attuale contesto in cui si muovono le notizie e i mutati confini di questa professione non aiutano: che non siamo noi la notizia, non dobbiamo metterci nel mezzo, siamo un filtro ma non il blocco, siamo chi accompagna la notizia e non chi la definisce.
Sarebbe bastato questo esercizio non tanto di empatia, ma di professionalità, per evitare la polemica. Il giornalista deve commentare la notizia, non diventarlo.
Se la persona che stai intervistando piange per il quarto posto tu tieni a freno il tuo bisogno di dire la tua e il tuo bisogno di inscatolare la notizia come preferisci e la accompagni, gestisci il tuo eventuale disappunto, ti incuriosisci dei quel pianto. Chiedi magari anche come mai, perché non è una reazione usuale, ma lo fai per contribuire al momento, non renderlo tuo o cercare di sovvertirne la narrativa.
Purtroppo le nuove forme di giornalismo da content creator, i social network, la logica della reaction, il bisogno di autopromozione e l’imperante strapotere della narrazione personale, intima e propria, anche di fatti che esulano dal nostro controllo, hanno reso la cornice della notizia importante quanto la notizia stessa.
D’altronde abbiamo avuto prima il New Journalism e poi il Gonzo Journalism, che hanno sparigliato le carte del racconto, mettendoci al suo interno il giornalista stesso, soluzione anelata e quasi obbligata per chiunque cerchi disperatamente un po’ di attenzione con una prosa esagerata nel mare di contenuto di oggi , ma di Capote, Wolfe, Didion e Scott Thompson, gente insomma che te lo fa sembrare facile, non ne nascono tutti i giorni e i contesti in cui si muoveva quel giornalismo letterario non sono i nostri..
Ed è anche vero che veniamo da almeno un decennio in cui i blog hanno cambiato tanto anche il giornalismo, in cui bastava raccontare un po’ di fatti tuoi o mettere in piedi una opinione sferzante e ci stava di trovare lavoro e una certa fama (Questa osservazione potrebbe essere influenzata dalla lettura di Traffic di Ben Smith, che racconta proprio gli anni d’oro della blogging culture e di come ha fatto nascere Buzzfeed e compagnia). Lo so perché ci ho creduto anche io per un po’, che scemo.
Infine, non possiamo negare che di fronte alla potenza della IA (e all’inevitabile amalgama del plagio e della concorrenza) l’unica via d’uscita che molte persone con le dita sulla tastiera sentono è essere ancora più personali. Io per primo.
E anche il pubblico che deve fare? Seguire i siti in blocco è spesso un esercizio assurdo complicato, una cacofonia di voci che dicono tutto il contrario di tutto. In questo spazio il giornalista-personalità ci offre un sigillo di garanzia. Ha senso, perché giusto seguire la competenze, anche uno stile, ma spesso si sfocia nel culto, nella tuttologia, nelle emozioni per procura, per la polemica che nasce.
Ci manca forse un po’ oggi questa capacità di puntare il riflettore senza metterci sotto la luce. E invece da quella luce ci dovremmo un attimo scansare, solo che è difficile, difficilissimo e lo sarà sempre di più. Perché… perché l’ho detto mille volte, perché saremo sempre più freelance che sgomitano contro altri freelance per quel posto di cui non c’è alcun annuncio di lavoro e per il quale vieni discretamente contattato in privato.
E quindi quella luce ci serve, eccomi, sono io, l’ho scritto io, parlo di questo ma ne parlo come solo io so farlo e forse parlo anche un po’ di me. Io ho fatto questa intervista, eccomi nella foto col vip, io decido che tono dare a questo pezzo, io decido che la nuotatrice ha detto una cazzata, perché magari dicendolo mi tengono, essendo in linea con un certo modo di sentire in televisione.
Anche oggi vorrei dirvi che ne usciremo in qualche modo, ma onestamente non lo so, le soluzioni sono percorsi, ci proveremo passo passo. Intanto torno a farmi un tuffo.
Link e notizie
Questa settimana ho provato il nuovo gioco di Star Wars: Outlaws e devo dire che sono rimasto piacevolmente colpito.
Ho anche parlato di una storia non particolarmente piacevole che riguarda Keywords, azienda italiana che si occupa di adattamenti videoludici (Tra le altre cose) e che ha licenziato 31 persone mentre gli AD si aumentavano lo stipendio.
Che non è come il capo di Bungie, che continuava a comprare auto di lusso mentre licenziava gente, ma insomma…
Ha chiuso a sorpresa in queste ore un altro pezzo di storia del giornalismo videoludico: Game Informer. La notizia è arrivata a sorpresa e con effetto immediato, tanto che alcuni collaboratori erano ancora nel bel mezzo di un press tour quando lo hanno saputo. Addio a rivista, sito, articoli, video, podcast, tutto sparito in un secondo, non c’è più niente chi ci ha lavorato non potrà neppure mostrare i suoi lavori passati. A staccare la spina è stata Gamestop, proprietaria di GameInformer, che lo ha fatto in un attimo, senza pensarci troppo.
Pare che Mr. Beast, il potentissimo e ricchissimo youtuber che in questi anni ha infranto ogni record e guadagnato milioni con i suoi contenti molto spettacolari e molto “puliti” non se la passi benissimo. Sia per cose passate, sia per quello che dice chi ci ha lavorato.
Bel post, Lorenzo. Sembra proprio che molti giornalisti e giornaliste (ma in generale noi come persone) si faccia fatica ad accettare che le risposte a una medaglia olimpica, a un podio mancato, a un qualsiasi gesto sportivo agonistico possano essere tante, diverse e andare comunque tutte bene. Proprio perché ogni atleta è tante cose, e soprattutto a una gara importante ci arriva dopo un percorso diverso, che solo lei o lui conosce fino in fondo.
Assolutamente eccellente e sintetizzabile in: meno ego, grazie diamine.
Meno ego in generale e più racconto degli altri, che di noi stessi, di cosa pensiamo e di che inquadratura usiamo, che lente abbiamo, per il nostro racconto.