La crudeltà è continuare a dire le cose male
Dalla sentenza Cecchettin ai meme su Turetta: come il giornalismo ha smesso di darci un senso e molti creator manco ci provano.
Mi rendo conto che tornare a scrivere dopo un po’ di tempo e partire subito con un tema delicato come la sentenza del femminicidio di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta non sia proprio il massimo per creare un clima rilassato. Mi rendo anche conto che se ne è già parlato tanto e forse non c’era manco bisogno che aggiungessi il mio parere.
E che forse non è neppure il tema principale di una newsletter che voleva raccontare come si scrive di cultura pop ed è finita a parlare di giornalismo in generale.
Chiudo questa sequela di premesse con la più importante: la mia testa funziona che se non libero lo slot mentale “scrivi due robe su questa cosa” quel pensiero tornerà a tormentarmi tra un mese mentre mi rilasso con una birra in mano, quindi eccoci qua.
Il caso in questione contiene così tanti elementi esemplari del giornalismo e della comunicazione moderna che non riuscivo a lasciarlo stare. Non solo perché è stato l’ennesimo gesto orribile da parte di un uomo che ha scatenato il consueto dibattito dove la prima cosa che fanno gli uomini è dire “ma io che c’entro” mentre le donne cercano di spiegargli che le cose avvengono sempre in un contesto.
Non solo perché per una volta abbiamo visto un padre e una sorella della vittima scegliere di parlare in modo preciso di quel contesto, beccandosi addirittura le accuse di volerlo fare per marketing o interesse.
Ma perché è un ottimo esempio di come di fronte al trauma e all’orrore c’è sempre chi sceglie la via della memificazione del complotto.
Probabilmente saprete che su internet spopolano meme che sostengono la non esistenza di Filippo Turetta o che utilizzano la IA per metterlo in contesti assurdi, tipo mentre fa un gol in Serie A. La memificazione è l’ultima frontiera dello sdoganamento, è lo strumento più potente per idee terribili che finiscono in quel confine di post-ironia in cui tutto può essere vero e falso, dipende chi ho di fronte e dove posso far decantare razzismo, omofobia, misoginia e tutto il resto. Come scriveva Jean Baudrillard, oggi la realtà non scompare: si simula. E ciò che resta è solo lo scambio dei segni.
Quello spazio in cui tutto viene accettato perché tutto diventa occasione di contenuto, dove “Io sono Giorgia” diventa un inno identitario da cavalcare che persino i tuoi avversari politici finiscono per canticchiare.
Sono un grande amante dei meme ma ammetto che vedere tutto ciò che ci capita attorno, anche le cose più orribili, diventare rapidamente un reel o un carosello di immagini buffe a volte mi pesa. Forse sto solo invecchiando. O forse se fai i meme su Turetta c’è qualcosa che è andato storto nella tua educazione emotiva. Qualcosa che ha una responsabilità condivisa tra i parenti, la scuola, le amicizie e internet.
Ma si parlava di contenuto, di facilità di contenuto, che è ormai l’unica legge che regola la realtà che ci circonda. Se qualcuno può diventare contenuto, può essere elaborato, ci si può reagire o può diventare un format facilmente replicabile allora bene, altrimenti morte, oblio, interazioni basse e shadowban.
Il diritto, il dolore e la parola crudele
E proprio perché viviamo immersi in questa logica di contenuto pervasiva e totalizzante, che rende ogni cosa occasione di esposizione, indignazione o intrattenimento, è ancora più difficile fare i conti con un caso come questo, che rifiuta di restare contenibile. Ed è lì che entra in gioco la frattura tra il linguaggio della rete e quello della giustizia.
Filippo Turetta ha ricevuto il massimo della pena prevista: l'ergastolo. Ma il tribunale ha deciso di non applicare due aggravanti: lo stalking e la crudeltà. Quest'ultima, in particolare, è diventata un punto di rottura. Ci si è chiesti: come può un omicidio con decine di colpi inferti non essere considerato "crudele"? Com'è possibile che l'abbandono di un corpo agonizzante non basti a far scattare quell’aggravante?
La risposta, per quanto possa risultare fredda, è che il diritto non ragiona per sensazioni. Secondo la giurisprudenza, la crudeltà non è semplicemente un'esecuzione efferata, ma un'intenzionalità ulteriore, gratuita. Deve esserci la volontà autonoma di infliggere sofferenze inutili, non necessarie all'omicidio. Non basta il numero dei colpi. Non basta l'orrore. Serve un passaggio ulteriore, intenzionale.
E questa discrepanza tra diritto e sensibilità collettiva genera un cortocircuito inevitabile. Perché ci siamo abituati a chiedere al sistema penale risposte simboliche, consolatorie, culturali. Ma quel sistema ha un'altra funzione: serve a individuare responsabilità individuali, non a educare la società.
La parola "crudeltà" è diventata qualcosa di più di una formula giuridica. È diventata un simbolo. L'abbiamo usata per esprimere rabbia, dolore, senso d'ingiustizia. Ma il diritto, per sua natura, ha regole rigide. Non può rispondere ai sentimenti.
Nel senso più profondo del termine, la crudeltà è un'assenza di trasformazione simbolica. È ciò che resta viscerale, vivo, non elaborato. Qualcosa che fa male perché non è stato digerito, non è passato attraverso la pietà, l'empatia, la cultura. È anche una forma di disumanizzazione. Ed è qui che il diritto e il linguaggio si scontrano: perché il primo chiede rigore, il secondo chiede senso. E in mezzo ci siamo noi, che cerchiamo di capire cosa ci ha fatto più male: il fatto o il modo in cui è stato raccontato.
La sentenza ha fatto quello che doveva: ha condannato con la massima pena possibile, ha spiegato per filo e per segno perché quell’atto è uno spregio alla vita e al suo valore da parte di un uomo terribile. Ma per chi non è dentro alla macchina legale è mancato quel senso che chiediamo alle sentenze.
Detto ciò, mi sembra anche doveroso chiarire una cosa: il dibattito sulla "crudeltà" come aggravante non è, né deve mai diventare, una critica nei confronti della sorella della vittima. Lei ha tutto il diritto di vivere, nominare ed esprimere il proprio dolore come meglio crede. Sarebbe semplicemente disumano mettersi a correggere le sue parole con il codice in mano. Davvero, ci vuole una freddezza brutale per pensare che in quel momento la priorità sia "correggere" una sorella in lutto.
Quello che invece mi ha colpito in senso negativo è stato altro. L'ondata di content creator che hanno cominciato a contare pubblicamente le coltellate, a fare reaction, a citare numeri con tono clinico o straziante a seconda dell'umore del feed. E l'hanno fatto non per senso di giustizia, ma per accendere l'algoritmo. Per raccogliere like, per entrare nell'onda. È stato rivoltante. Non perché non si debba parlare di questi temi — ma perché farlo così, con la strategia emotiva di chi monta il dolore al servizio della performance, è esattamente ciò che avvelena ogni tentativo di riflessione.
Giornalisti e content creator si somigliano moltissimo. Entrambi spinti a inseguire la curva dell'indignazione. Entrambi affamati di esposizione. Eppure spesso si guardano con disprezzo reciproco, come se fossero mondi opposti. Quando invece sono semplicemente due facce della stessa medaglia: quella che chiama "contenuto" ogni cosa. Anche la morte. Anche la carne viva.
La responsabilità di dare senso
Nel frattempo, le notizie si diffondono secondo logiche che non hanno più niente a che vedere con la cronaca o il giornalismo. I contenuti non si propagano più attraverso connessioni stabili, ma a macchia, come scintille emotive. Non è importante chi ti segue, ma chi reagisce. Non importa la qualità del messaggio, ma la sua capacità di scatenare qualcosa.
Il feed è un ecosistema nervoso, fatto di picchi e dimenticanze. E in questo ambiente, il caso Cecchettin è diventato subito oggetto di reazioni, poi contenuto, poi – inevitabilmente – anche meme. Il trauma si è trasformato in trigger. La violenza è diventata materiale replicabile. Ed è questo che ci fa più paura: che anche l'orrore sia destinato a svanire nello scroll.
Alla fine, resta una domanda: cosa volevamo dalla sentenza? Una pena più dura? Impossibile, era già la massima. Volevamo giustizia. Ma forse volevamo anche significato. Volevamo che quel dolore servisse a qualcosa. Che il sistema ci dicesse che ha capito. Ma il sistema non sente. Il processo non è un rituale di elaborazione del lutto. È un procedimento tecnico.
E allora? Allora tocca a noi. Tocca a noi creare narrazioni capaci di non anestetizzare il dolore, ma nemmeno di feticizzarlo. Tocca a noi costruire senso, strumenti culturali, linguaggi condivisi. David Foster Wallace aveva ragione: il problema della nostra epoca non è che ci siano troppe informazioni, ma che non abbiamo più filtri per riconoscere ciò che ha valore. Tocca a noi ricordare che un meme non è un pensiero. E che la crudeltà non è solo giuridica. È sociale. È sistemica. È algoritmica.
E quel significato che cercavamo, in teoria, avrebbe dovuto darcelo il giornalismo. È il suo lavoro: aiutarci a tenere il bandolo del senso nella realtà di oggi. Ma quella funzione è completamente abbandonata. Che si parli di crudeltà in un delitto, di dazi, dell'ennesima polemica su un personaggio che non ci piace in una serie tv o dei rumor sulla Switch 3 — sì, non ho scritto male, sono già partiti — la logica è sempre la stessa: produrre rumore, alimentare la macchina. Non aiutarci a capire.
Vi prometto che la prossima puntata sarà meno pesante e che si farà attendere meno.
Link?
C’è un gran bel libro sulla cultura otaku, che è un po’ anche la nostra ormai, e magari vi è sfuggito.
E Monster Hunter Wilds continua a piacere.
In questa puntata di Altri Mondi io e i miei capelli a caso vi parliamo di Trump e i suoi dazi, che ovviamente potrebbero cambiare completamente fra mezz’ora.
Dalla medesima gang di questa newsletter vi consiglio anche:
Hai spiegato benissimo il compito del sistema giuridico e la ricerca inevasa di un significato. In quello spazio ci sono tutti quelli che ciarlano e producono meme di un cinismo estremo per aggiungere solo disturbo al rumore, sperando di essere notati.
Come dici bene tu c'è una continua e diffusa richiesta di "educazione": alla giustizia viene chiesto di "educare", alla scuola viene chiesto di "educare" e, paradossalmente, è la stessa politica che si fa portavoce di questi appelli. Credo però che tutto si basi su di un fraintendimento perché, nella maggior parte dei casi, l'"educazione" viene intesa come il trovare delle punizioni per sbaglia in modo che capisca che non si fa così. Un'interpretazione dell'educazione per errore e punizione che -oltre ad essere pedagogicamente superata- si riduce a mero addestramento e può funzionare bene per i ratti, meno per le persone. Educare non è un atto banale e soprattutto non è un atto unidirezionale (io educo te), ma una "relazione", un azione collettiva che vede coinvolti diversi attori: la scuola, la famiglia, i media, la politica,...Siamo animali sociali e impariamo confrontandoci e osservandoci l'un l'altro di conseguenza lo strumento educativo fondamentale è l'esempio. Questa richiesta continua di "educazione" per conto terzi è, invece, un sottrarsi alla propria responsabilità di "educatore" -cioè di costruttore di esempi e di modelli - che si parli di genitore, di insegnante, di giornalista, di creator, perché, come sempre, vorrebbe dire mettersi in discussione, fare fatica, spesso sbagliare e non potersi dire "io non c'entro, non tocca a me". Scusa la lunghezza.