Mancanza di ascolto e spazi da prendere
L'ennesimo caso di cronaca con gli ennesimi appelli, gli spazi di un sistema squilibrato che sembrano concessi da chi pensa di dover dare il proprio imprimatur.
Mi rendo conto che normalmente il tono di questo spazio è leggero, in fondo il mio principale insieme di riferimento è quello delle notizie legate all’intrattenimento e alla tecnologia, che sono sì anche spazi politici ma anche spazi di evasione.
Ma mi riesce difficile non guardare al femminicidio di Giulia Tramontano, sì, femminicidio1, parola che identifica non tanto l’uccisione di una donna, che può avvenire per mille motivi, ma l’uccisione di una donna nel contesto di un nucleo familiare o parentale in cui la donna viene uccisa come tale, per gelosia, possesso, misoginia, per salvare il proprio onore e per l’incapacità di gestire le conseguenze delle proprie azioni.
E ci guardo non tanto per l’orribile fatto di cronaca in sé, quanto per l’ennesima, ottusa riproposizione di schemi comunicativi che incorniciano la vicenda in un contesto di deresponsabilizzazione per la società in cui è avvenuto.
Possiamo fare finta che questi schemi non siano in qualche modo legati a un sacco di altre cose che, più in piccolo, riverberano in altri settori. A tutte quelle discussioni sull’inclusività, sui personaggi femminili nelle opere di fantasia, su chi classifica come “woke” ogni cosa che devia dai “bei tempi”. Ma dei fili ci sono sempre. Perché chi pensa male non lo fa in un solo ambito dell’esistenza.
E ogni volta tocca assistere alla consueta giustissima controffensiva di donne incazzate e stanche di titoli di giornali che spostano il problema, di analisi che guardano alle vittime, di uomini che corrono sulle barricate, si dissociano, che “io non sono così”. Mentre i membri più illustri della specie che arrivano a dire cose aberranti tipo “non piango per una che mi avrebbe ignorato per inseguire i fighetti” o “le prime vittime sono gli uomini perbene che queste cose non le fanno”.
Ogni volta la stessa storia, le stesse frasi, gli stessi post su Instagram e Facebook, gli stessi titoli di merda che poi vengono corretti in corsa. È come se ogni volta si ripartisse da zero, anzi non “è come se” ogni volta si riparte da zero, perché chi dovrebbe ascoltare, chi dovrebbe informarsi, chi dovrebbe leggere, chi dovrebbe dire “ma che cazzo stai dicendo” agli uomini attorno a lui poi passa il tempo ad alzare gli occhi al cielo contro “le femministe”, “i woke” e sbuffa ogni volta che si parla di patriarcato oppure tira dentro la sofferenza degli uomini.
Come se la questione fosse una morra dialettica in cui ogni argomento va combattutto col suo contrario, in cui non conta progredire come individui ma neutralizzare ogni possibile tentativo di cambiamento, così da rimanere ben saldi nel proprio fortino personale, circondato dai cadaveri.
Un problema sociale e politico non si risolve soltanto cambiando la comunicazione, non salveremo le donne dai compagni e dai mariti violenti, narcisisti e possessivi solo con gli appelli a educare gli uomini al rispetto e all’intelligenza emotiva. Lo so io come lo sa ogni persona che in queste ore ripete che dobbiamo educare i bambini, non insegnare alle bambine come difendersi.
Ma una strada che dobbiamo continuare a percorrere e su cui gli uomini devono assolutamente fare la loro parte. E limitarsi a essere persone decenti non è fare la propria parte.
È un passo che va nella medesima direzione di un linguaggio inclusivo, una società meno aggressiva e più empatica, il rispetto di chi ci sta attorno, la rappresentazione, l’abbattimento di pregiudizi maschili e femminili.
Non è un cammino facile, anzi, è un cammino fatto anche di errori, correzioni, discussioni, ma è meglio che star fermi, perchè è palese che stando fermi le donne continueranno a morire. Forse ci riusciremo con un lento ricambio generazionale.
Resta intanto immutata la sensazione di un supplizio di Tantalo dove ogni volta un titolista o un giornalista sembra ignorare codici deontologici ed empatia per scrivere sempre le stesse cose. Non so se è pigrizia, dolo, incapacità di uscire da un codice comunicativo che usa ancora “movida” per indicare la gente che esce la sera.
Di sicuro ci manca la capacità di ascolto, di presa di coscienza dei nostri errori e, a volte, la capacità di stare zitti se proprio non interpellati o, al contrario, di parlare quando preferiemmo stare zitti per evitare di fare brutta figura nel club dei maschietti.
Donne trofeo, anzi, achievement
C’è questo articolo di Fabrizia Malgieri che parla di come le donne che scrivono di videogiochi vengano utilizzate in maniera spesso strumentale e vengano condivise soprattutto per fare del “virtue signaling2” che è un termine inglese che potremmo tradurre come “condivido questa cosa per far vedere che sono dalla parte giusta del discorso”.
La questione è spinosa, banalmente perché non siamo nella testa delle persone e non possiamo sapere se tizio condivide qualcosa perché ci crede o per mero posizionamento e finto attivismo.
Ma il pezzo di Fabrizia è interessante proprio perché non fornisce una risposta, ci ricorda solo che questa cosa esiste, che la questione è complessa, che anche io, che adesso sto parlando di questo articolo, sono in qualche modo colpevole o comunque coinvolto in questo sistema. Un sistema in cui nessuno mi considererebbe un trofeo da esporre. (Se non perché sono bellissimo e bravissimo, ovviamente).
Sì, colpevole e coinvolto, banalmente perché ogni spazio è uno spazio politico e i corpi che lo abitano non sono mai soltanto delle voci ma portano con sé una serie di significati che facciamo fatica a mollare.
Oggi una donna che scrive di videogiochi in Italia, fa strano, è soggetta a vari scrutini e battutine. Se si fa una foto lo fa di sicuro per apparire, se non è perfetta è una poser.
Pensate che esageri? Chiedetelo a loro.
E questo non è un problema solo di personaggi aberranti che abitano il sottobosco di forum orribili, ma a volte viene fatta con le migliori intenzioni. C’è questa idea inconscia che lo slot “donna che scrive di videogiochi” possa essere occupato da una sola persona o comunque sia uno spazio piccolo che via via cambia il base al momento.
Un meccanismo assurdo che crea anche una competizione strisciante per diventare “quella condivisa” da uomini che vogliono fare bella figura.
Un fenomeno che viene spesso identificato con l’ennesima parola inglese che vi farà alzare gli occhi al cielo. Tokenism3.
“Ci siamo passate un po’ tutte e, un po’ come le mode, andiamo e veniamo. Per qualche mese ce ne sarà una, qualche dopo un’altra e un’altra ancora. Sembriamo come il prezzemolo. Ma sempre perché a deciderlo è un uomo. E non si discutono le buone intenzioni (l’educazione, la tua foto profilo “Buongiorno” e “Buonasera”…ops), sia chiaro, ma mi piacerebbe che passasse un messaggio importante: Non siamo una tendenza”.
Il problema è anche sistemico: di donne che gestiscono siti di videogiochi di fascia alta ce n’è una: Stefania Sperandio, in tutti gli altri casi a decidere chi parla e chi no, chi vale e chi no, sono spesso uomini. Uomini che in molti casi gestiscono le cose in maniera discutibile sotto molti punti di vista.
In questo contesto per anni le donne hanno dovuto trasformarsi in elementi di rottura, di polemica e di contrasto che spesso viene usato un po’ come “pinkwashing”. Il messaggio è “non siamo degli stronzi maschilisti con opinioni retrograde e aberranti, guarda, scrive persino una donna”. E in molti casi le donne, pur consapevoli, accettano questo scambio.
Ma questo vale non solo per la specializzata, è una cosa che si ritrova a tutti i livelli.
Tempo fa ho intervistato Kurolily, streamer molto famosa con cui ho anche lavorato, la cui intervista partì da premesse simili: smettete di dirmi che sono un simbolo di femminismo, smettete di considerarmi una specie di animale dello zoo solo perché sono una donna che ama i videogiochi.
Ma come si risolve questa situazione? Se dessi una risposta probabilmente avrei fallito nel leggere il testo, preferisco una posizione di dubbio e di ascolto che una dove risolvo un problema dall’alto del mio nulla.
La bellezza di questo articolo,r ibadisco, sta proprio nel suo non smettere di porre domande, anche mentre lo leggi, lo condividi, ne discuti. Domande che non sempre hanno una risposta, ma che devono incontrare, e qua torniamo alle prime righe che ho scritto, qualcuno che ascolti e che si ponga dei dubbi.
Faccio la mia parte? La faccio abbastanza? E quando do spazio, per quanto piccolo e su un progetto volontario, lo faccio perchè reputo ci sia grande valore nelle opinioni di ogni persona a cui lo offro o cerco in qualche modo di posizionarmi e posizionare N3rdcore in un contesto in cui “mi fa comodo” avere voci differenti?
Sono sincero o il subconscio mi frega?
Credo che in molti casi la risposta la sappiamo solo noi e che non ci sia una risposta a senso unico. Dobbiamo accettare l’idea che alcune situazioni non si possono tagliare con l’accetta e la diversità di opinioni a volte porta con sé un valore di posizionamento.
Chi offre quello spazio però innanzitutto deve farsi una domanda: sto creando realmente un ambiente di opinioni differenti che vengono rispettate? Uno spazio che fa sentire protetto e rispettato chi ci scrive?
LINK!
Nella puntata di giovedì di Altri Mondi su RaiNews ho fatto un hadouken, non mi pento di nulla.
Finisce Mrs. Maisel, finisce Ted Lasso e asciugate le lacrime mi sono reso conto che vedo delle similitudine tra i due. Un pezzo a cui tengo molto.
Il .GIF, Festival del gioco, illustrazione e fumetto, di Prato visto dall’interno.
Una donna su 10 a pensato al suicidio dopo aver subito abusi giocando online.
In Francia è stata approvata una legge sugli influencer.
Capitan Troll, che forse conoscete se frequentate N3rdcore, è stato coautore di un bellissimo video di Yotobi.
la parola femminicidio era già in uso nell’Ottocento per indicare l’assassinio di una donna in quanto tale. E in tal senso era contemplato nel law lexicon del 1848 come crimine perseguibile. Il termine viene ripreso da Diana Russel durante le sue conferenze nel 1976 e solo nel 1992 la criminologa fornisce un’ulteriore precisazione del concetto in un articolo contenuto nel libro “Femicide: the politics of women killings” scritto insieme a Jill Radford. Fonte
Con l'espressione inglese virtue signalling (o virtue signaling), letteralmente "segnalazione di virtù" (all'incirca traducibile in italiano con il termine farisaismo) si intende un atteggiamento di artefatta, talvolta esasperata, ostentazione di aderenza a valori morali che riscuotono consenso nella società del tempo. Da Wikipedia.
Il tokenism, o anche “teoria della massa critica”, è stato definito da Rosabeth Moss Kanter (1977) come quel fenomeno per cui quando in un gruppo viene riconosciuto un sottogruppo sottorappresentato, questo ha effetti negativi sull’attività dell’intero gruppo. Per esempio può consistere nel nominare o assumere una persona, che appartiene a un gruppo di minoranza, solo per prevenire eventuali critiche e dare l’impressione che le persone vengano trattate in modo equo. Fonte