C’è una situazione del giornalismo che magari non è nota ai più ed è la roundtable. Cioè, quel momento in cui più giornalisti si siedono col soggetto dell’intervista e si fanno domande a rotazione, sperando di poterne fare almeno due o tre. Non è il massimo della situazione perché ti impedisce di crearti un filo conduttore nel discorso e ci sta che qualcuno faccia la tua stessa domanda, quindi devi scalare a quella successiva.
Non è il massimo dicevo, ma è una cosa che oggi si fa spesso (“oggi” nel senso che saranno più di dieci anni) per sfruttare al massimo il tempo del vip di turno e compattare assieme più testate, magari più piccole, lasciando a quelle più grosse il privilegio di una decina di minuti da soli.
Il problema sorge quando poi devi riportare quello che ti hanno detto, magari un collega ha ricevuto una bella risposta. E allora che si fa? Non esiste una linea guida ufficiale, ma ovviamente esistono la deontologia e la buona educazione. Di solito si spiega che le risposte sono state date in un contesto ampio, c’è chi magari cita le proprie domande e riassume le rimanenti, chi usa solo le sue. Addirittura, ci sono i campioni di correttezza che citano e linkano colleghi e colleghe che hanno partecipato quando usano il loro materiale. E poi c’è ci invece prende tutto e fa intuire che la chiacchierata è solo sua.
A volte può essere inesperienza, a volte è malafede, a voi decidere come gestire ogni caso. Ma partite sempre da una posizione di gentilezza, perché nel contesto di oggi molte persone sono mandate allo sbaraglio senza alcuna vera formazione e magari non sanno come ci si dovrebbe comportare. Spesso non lo sanno neppure quelli che scrivono da anni.
A saperlo…
Un po’ di tempo fa mi è capitato di parlare con una persona che conosco bene ma che non vedevo da tempo e con cui mi seguo sui social. Parlando del più e del meno mi ha detto con una battuta che, secondo lui, avrei dovuto scrivere un libro, visto che ho sempre scritto tanto.
Gli ho risposto che un libro lo avevo scritto, nel 2020, con una riedizione nel 2023.
“Ma come ho fatto a non vederlo? Ci seguiamo, mi conosci, è su tutti i miei profili”.
“Eh, boh”.
Mi capita ogni tanto di fare presentazioni, eventi, di essere in dei posti e ovviamente di dirlo, come dico quando esce un articolo, un video, una qualsiasi cosa che faccio. Raccontare la mia produzione fa parte della mia produzione, abbiamo parlato spesso di questo bisogno di un freelance non solo di costruire qualcosa ma di dirti pure “guarda che bella questa cosa!”.
E ogni volta qualcuno mi dice “ma come, eri qua?”, “ma come, ne hai già scritto?”, “ma come se lo sapevo venivo!”.
Sicuramente in molti casi è cortesia, un modo gentile per rimediare magari a quel momento in cui qualcuno non aveva voglia di uscire/aveva i fatti suoi/in verità gli sto sul cazzo mentre io ero in città, ma capita anche molta gente che cada dal pero.
E come è capitato a me capita a tanta gente, anche, anche persone con un seguito discreto e consolidato. Mi succede anche di leggere di influencer più o meno grossi che devono costantemente ripetere dove saranno e cosa faranno agli eventi.
Come mai?
Un po’ perché la gente è stronza e non legge o non cerca, vuole solo che tu glielo ripeta per l’ennesima volta. Ci sta, purtroppo.
Ma è un po’ è anche colpa del presente, che è diventato una specie di lungo titolo di testa di Star Wars che ci scorre davanti. O leggi subito le parole che ci passano sopra o quando sono in alto, piccolissime, non le vedi più.
Perché oggi ci informiamo in spazi che chiaramente non sono stati pensati per informare o mantenere quelle informazioni rilevanti nel tempo, a meno di non pagare per una pubblicità. Sono luoghi inefficienti, fugaci, pensati per una fruizione distratta e temporanea del mondo, come accendere un telegiornale iniziato a metà, in cui tutto ciò che è stato detto prima è sparito e che vengono approcciati con la mente di chi tutto sommato non è la per incamerare chissà quale informazione importante.
E ogni volta in cui l’utenza trova dei modi per aggirare le politiche di questi spazi, vuoi con i link in bio, vuoi con le storie in evidenza, ecco che le piattaforme si adattano per ricordarti che no, se vuoi realmente essere visto perché il tuo lavoro si basa su questo devi pagare. E infatti ora le storie in evidenza, che molti usavano come piccoli scampoli di curriculum, sono state nascoste in un tab che vedrà un terzo della gente che le vedeva prima.
Certo, possiamo fare dei post, degli eventi su Facebook, mettere su una storia e ricondividerla ogni volta e continuare così. Oppure possiamo slegarci del tutto da queste piattaforme e sperare che usando dei social più nostri tipo mastodon, risolva le cose. Ma il problema non è soltanto la terrificante realtà dei social o il giogo della SEO. Le persone in generale ormai non cercano più tanto su Google (perché dovrebbero farlo quando i risultati che ottengono sono poco interessanti e manipolati?) e lo fanno direttamente sui social.
Oppure, semplicemente, non lo fanno. Perché ogni giorno siamo bombardati da un rumore costante di informazioni per cui se qualcosa arriva, bene, altrimenti pazienza. Tutti gli altri invece danno rilevanza solo a ciò che viene illuminato dai loro principali attrattori di attenzione e dalle relazioni parasociali che intessono con loro.
Ecco perché molti videogiochi, film eccetera cercano di uscire dal mare magnum in cui tutto galleggia coinvolgendo creator e personalità varie. Perché queste persone spesso guardano qualcosa e quella cosa viene vista da un sacco di gente che altrimenti non si informa più di tanto.
Ecco perché spesso magari c’è anche l’impressione che “non esca niente di nuovo”, “le robe son tutte uguali”, perché non solo le persone guardano poco lontano dal loro naso ma è sempre più difficile che riescano a farlo. Il paradosso è che viviamo in una società ricchissima e piena di strumenti per trovare cose, ma quegli strumenti sono spesso resi inefficaci da logiche di marketing o semplicemente intasati di risultati.
Che fare?
E allora che si fa? Come possono freelance, artisti e quant’altro farti vedere che si c’è quella mostra, quell’evento, quell’articolo o quella cosa che, secondo me, ti piace? Alla fine è un po’ la grande domanda per chiunque viva di questo lavoro e non esistono ovviamente risposte facili, nonostante quello che viene detto da chi campa cercando di rendervi visibili.
Pensare che io possa darvi delle soluzioni stabili ovviamente è pura follia, ne ho cercate un po’ in giro e mi sono fermato al quinto link pieno di consigli senza senso da parte di chi non ha mai veramente fatto il freelance in vita sua. Roba che se ve la proponessi io col fare di quelli che scrivono post su Linkedin probabilmente vorrebbe dire che sono stato ucciso e sostituito da un sosia mandato dagli oscuri signori del mindset e del fatturare.
Però si possono sempre trovare dei modi per arginare il nostro decadimento. Pur essendo consci che da soli non possiamo fermare lo scorrere delle timeline.
Uno su tutti per me è trovare degli spazi dove il ritmo di ciò che scorre lo decidi tu. Qualcosa in cui eventualmente puoi indirizzare chi per miracolo riesce a seguirti. Qualcosa che resti in piedi anche se il tuo social preferito viene comprato da una persona che odi o diventa l’ennesimo spazio enshittificato.
Questa idea per me è fondamentale. Chiamatemi antico.
Vivo nella pia illusione che un giorno la struttura dei social collasserà e dovremo tutti tornare ai blog e alle pagine personali su Geocities, un po’ come quelli il cui piano per il futuro è sperare nel crollo della civiltà occidentale.
Scherzi a parte, Substack è un esempio di spazi come questo, ma anche una pagina personale, una landing page, un dominio-curriculum che fa tanto primi 2000 ma è anche un modo per avere un biglietto da visita sempre pronto (che ovviamente io non ho ma magari un giorno chissà, avrò voglia di litigare con wordpress o avrò i soldi perché ci litighi qualcuno).
E se proprio dobbiamo usare i social, facciamo si che ci rispecchino in qualche modo in maniera interessante (e rido all’idea che magari qualcuno viene sul mio profilo instagram cercando un professionista dell’informazione e si ritrova invaso dai reel su Warhammer 40.000)
Infine, parlo alle persone come me, quelle che vivono nella costante ansia di rompere le scatole agli altri: non si spamma mai abbastanza. Quindi fate lo di più. Quando pensate di aver ricondiviso quella storia, quell’evento, quella presentazione allora fatelo almeno altre due volte.
E se poi non viene nessuno o nessuno lo vede ricordatevi che si suona per una persona come per mille. Oggi è andata male, domani andrà meglio, ma anche un evento vuoto è un’occasione per forgiare il vostro spirito. C’è stata una difficoltà, è stato brutto, ma siete ancora vivi, il mondo gira, avanti con la prossima.
E ricordiamoci che il lavoro vero non è manco troppo quello che pubblicizziamo, ma tutto quello che avviene tra mail e contatti che coltiviamo e che, a volte, all’improvviso, può regalarci bellissime soddisfazioni.
Boh non so se in questa puntata ho detto cose sensate, ma ero stanco, perdonatemi.
Link?
Agatha All Along soffre di Marvelismo ma fa alcune cose bene.
R.L. Stine è lo scrittore di Piccoli Brividi, forse uno dei più importanti fenomeni per la lettura giovanile ed ecco cosa si prova a incontrarlo.
Veilguard non è solo uno dei giochi più polemizzati degli ultimi anni ma anche l’appartenente a una saga, quella di Dragon Age, dove ship e relazioni sono una delle parti essenziali del gioco.
Per Rai News sono tornato sulla figura degli attori digitali e del meritato successo che stanno iniziando a ricevere.
Mi permetto di segnalare una cosa che dice
della sua introduzione di questo numero. Ovvero che c’era in Italia una figura di spicco del mondo videoludico ed è stato intervistato pubblicamente, ma la sue frasi non sono state riprese dalla stampa locale. Butta là alcune ipotesi, tutte plausibili, sui perché. Fermo restando che in Italia il non citare colleghi di altri spazi è una prassi di quasi tutto il giornalismo.E infine:
Hai detto un sacco di cose sensate, come sempre. E sì, Substack è la cosa che mi fa pensare e respirare meglio online; spero proprio che regga, anche in caso di collasso apocalittico dei social media 😄.
Ho letto questo post con attenzione, me lo salvo e poi lo rileggerò nuovamente. Parla di un tema che mi è caro e mi pone di fronte a degli interrogativi che dovrò affrontare, prima o poi, dato che sto cercando di capire se e come dare un futuro alle cose di cui mi occupo.
Non mi piace parlare al prossimo di ciò che faccio, sui social: talvolta ci passo sopra e metto un link sul mio profilo, ma talvolta mi infastidisce; talvolta quasi mi ripugna.
Al momento non so come superare una questione che, in passato, è stata anche fonte di controversie nei confronti di terzi, che usavano i miei spazi come vetrine personali. Non posso nemmeno dire che rimando all'anno prossimo, perché ormai ci siamo!