Un guest post su Il Post
Come è cambiato uno dei pochi post in Italia dove fare il giornalista non sembra un lavoro degradante.
“In qualche modo bisogna pur ricominciare”. Era il titolo alternativo di questa prima puntata del 2025, anno a cui sono arrivato particolarmente scarico sul fronte della scrittura. Sicuramente, e giustamente, non ve ne siete accorti ma ho mollato tutto da prima di Natale. Oggi usciamo pure fuori dalla consueta data di pubblicazione.
Non è una cosa stranissima per me, mi capita di arrivare, come tutti, particolarmente svuotato alla fine dell’anno, ma di solito vinceva il “dai scrivi qualcosa”. Stavolta no, stavolta ho scelto di abbracciare questo piccolo oblio senza paura.
In parte credo sia fisiologico, mi capita ogni due o tre anni di aver finito la voglia di scrivere, poi capita qualcosa che mi torna, quest’anno però sento che è un po’ più forte degli anni passati. Come quando ti lasci andare a fondo dopo aver cercato di tenere la testa a galla per tanto tempo.
Forse, come mi è stato detto, è che nei miei progetti fatico a gestire quella fase in cui devono diventare “prodotti”, qualcosa di più di un passatempo con un discreto successo. (In fondo ci sono circa 2000 iscritti qua)
Una parte di me vorrebbe provare a non scrivere per un anno. Su Instagram molti mi hanno scritto che non ci riuscirei (solo una persona ha detto che dopo non scriverei più, tutti gli altri pensano che mi mancherebbe presto), ma da una parte credo che sia un po’ come quando smetti piano piano di fare qualcosa che prima era normale e finisci per chiederti come cazzo facevi a farla così spesso, dall’altra comunque non succederà, perchè comunque ci sono degli impegni presi e magari domani mi passa.
Sono solo stupito di come, rispetto ad altre volte, tutto mi sembri molto meno carico di ansia. Forse è l’invecchiare.
E non che non ci siano cose da dire eh? Perché tra Zuckerberg che improvvisamente si comporta come quello mollato dalla donna che odia tutte le donne ed esce con gli amici a bere male, Cecilia Sala che diventa improvvisamente una notizia da mettere persino sul Gambero Rosso (giuro, hanno scritto della sua dieta in carcere) e un sacco di altre cose grandi e piccole gli spunti non mancano.
Però facciamo che oggi il microfono lo lascio a Luca Annunziata, amico, giornalista più serio di me, che mi ha detto di voler scrivere due righe su Il Post. E chi sono io per dire di no? A volte magari riparte lasciando spazio agli amici.
La metamorfosi de Il Post
Il Post, un'idea di Luca Sofri (et al.), nacque più o meno agli inizi della mia carriera lavorativa. Ricordo vividamente quel momento, soprattutto perché una delle prime firme a trasferirsi a Il Post fu un collega che stimavamo molto in redazione: Emanuele Menietti. Già allora, quando scriveva per Webnews, era molto bravo: oggi continua a essere un piacere leggerlo e ascoltarlo.
Non vi nascondo che inizialmente eravamo scettici: l'idea di un prodotto editoriale "all'americana" non sembrava adattarsi bene al mercato italofono, con un pubblico e una raccolta pubblicitaria decisamente più ridotti. I primi anni non devono essere stati facili per quella redazione.
Il Post traeva ispirazione da diversi esperimenti editoriali dell'epoca, come Nòva de Il Sole 24 Ore o Blogosfere di Marco Montemagno. Questi tentativi cercavano di rompere con l'idea del prodotto editoriale cartaceo adattato al web, ma spesso fallivano per l'assenza di una visione editoriale chiara. Erano più progetti di business che editoriali. Il Post, invece, perseguiva un'idea precisa, sviluppata grazie ai nuovi strumenti di scrittura e lettura disponibili.
Con il tempo, la presenza di molteplici firme autorevoli ha creato uno zoccolo duro di lettori, attratti da opinioni e approfondimenti. A ciò si aggiungeva un approccio simile all'originale Huffington Post: commenti, meta-analisi, aggregazione e approfondimenti su contenuti pubblicati altrove. Era la fase de "le cose spiegate bene", divenuta poi il marchio di fabbrica de Il Post.
Nel giornalismo tecnologico, che frequento regolarmente, si lavora spesso su fonti esterne, ed è raro produrre uno scoop. Le notizie provengono quasi sempre dalle aziende stesse. Tuttavia, da lettore, avevo l'impressione che Il Post si limitasse ad analizzare il lavoro altrui, senza tentare di creare qualcosa di originale.
Non c'è nulla di sbagliato nella rassegna e nell'analisi: è un lavoro utile. Anche io, per anni, ho cercato di spiegare perché certi eventi fossero rilevanti e quali elementi considerare o non trascurare. L'ascesa e la caduta di The Pirate Bay o la rivoluzione del whistleblowing con Wikileaks sono esempi di storie che meritano di essere raccontate. Questo è il compito del giornalista.
Tuttavia, ciò che mi metteva a disagio era il continuo sottolineare gli errori delle altre testate. Critiche che trovavo fuori luogo, perché, come dicevo spesso, "al Post non si sporcano le mani".
Con l'introduzione dell'abbonamento, qualcosa è cambiato. Per 8 euro al mese (80 euro l’anno), la pubblicità è sparita dal sito, e sono stati introdotti contenuti esclusivi per gli abbonati, come alcuni podcast. Da allora, ho notato anche una trasformazione nel modo di fare informazione: meno meta-analisi, più lavoro di desk e ricerca diretta. Anche se non ricordo scoop, oggi Il Post offre aggiornamenti in tempo reale e reportage come quello di Luca Misculin a bordo della Geo Barents.
Negli ultimi quattro anni, dal 2020 a oggi, l'offerta si è diversificata: podcast, eventi, newsletter, libri (con Iperborea), op-ed nel contenitore Storie/Idee e merchandising. Curiosamente, il brand journalism, diffuso altrove, sembra marginale per Il Post. I bilanci annuali confermano una redazione irrobustita, con l'arrivo di figure come Daniele Raineri e Matteo Caccia. Adesso arriva la notizia dell’ingaggio di Nicola Ghittoni.
Tutto questo testimonia le ambizioni di un progetto che, 15 anni dopo, ha raggiunto sostenibilità e maturità. Tuttavia, come prevedibile, fare le cose per bene richiede risorse: il modello ha dei limiti di scalabilità.
Questa lunga premessa serve per esporre una perplessità: negli ultimi tempi, Il Post ha intensificato gli inviti ad abbonarsi e regalare abbonamenti. Anche nei prodotti riservati agli abbonati, si insiste molto sul sostegno alle iniziative del giornale. Pur riconoscendo l'eccellenza di alcune di queste iniziative, c'è un aspetto che mi turba.
Ad esempio, l'annuncio di chiudere nel paywall alcuni podcast, come Ci Vuole una Scienza, Globo o Amare Parole. Sembra trasmettere il messaggio che l'approfondimento sia un lusso per chi può permetterselo, mentre agli altri rimane l'informazione di base. Va detto, però, che il sito resterà accessibile gratuitamente: con pubblicità meno invasive rispetto ad altri.
Da valutare c’è anche che impatto avrà la notizia che Francesco Costa lascerà la conduzione di Morning, dopo 4 anni, per assumere la direzione del giornale: il suo podcast quotidiano è il piatto forte dell’offerta a pagamento, senza dubbio ci sono molte persone che mantengono attivo il proprio abbonamento solo per ascoltarlo quotidianamente. Io tra questi (non me ne volere, Vera).
Tutto il resto di quanto si trova su Il Post si può trovare anche altrove: non mancano i podcast dedicati a rassegna politica, scienza, esteri, costume, cultura. L’unica altra eccezione, forse, è Stefano Nazzi con Indagini.
Francesco Costa è invece solo su Il Post. La sua identificazione con la testata è ormai pressoché totale, la sua incoronazione a direttore è la consacrazione finale di un processo in atto da 15 anni: ovvero, da quando Il Post è nato e lui ha iniziato a lavorarci.
Ribadiamo subito, scanso equivoci, che Francesco Costa è un fuoriclasse: lo è quando gira gli Stati Uniti per fare reportage, lo è quando scrive libri, lo è stato nell’aver imposto il suo stile e il suo approccio nella rassegna stampa che ha condotto dal 2021 a oggi in Morning. Chiunque neghi che per fare podcast di questo tipo, oggi, in Italia, si debba fare i conti con la qualità e la costanza di Francesco Costa, starebbe mentendo a sé stesso e agli altri.
Mi sembra però che Il Post rischi di parlare sempre alla stessa platea, consolidando un rapporto di fiducia nato su valori condivisi ma che stenta a rinnovarsi. Questo potrebbe portare a un circolo vizioso, simile a quello che ha interessato La Repubblica: una testata percepita da molte persone come espressione di una classe sociale distante, molto lontana dalle sue origini.
Il rischio è che la critica lasci spazio al consenso, riducendo il confronto e l'analisi. Che si scambi il contenitore per il contenuto, confondendo la forma con la sostanza. Insomma, che ci si senta moralmente superiori solo perché abbonati, forti anche dello slogan che ogni tanto si sente ripetere dalle voci de Il Post che suona più o meno come “cambiare in meglio il mondo” attraverso il loro giornale.
Io sono così perché leggo Il Post.
Il Post è così perché lo leggo io.
Rileggendo l'editoriale iniziale di Sofri, noto quanto sia cambiato Il Post dalla sua presentazione iniziale. Forse è arrivato il momento, per loro, di riflettere su quale strada intraprendere per fare un passo avanti.
Cosa farà Il Post da grande? E quale ruolo potrà giocare in un panorama in cui la comunicazione tende sempre più all'iper-semplificazione? Forse ne sapremo di più il 19 aprile, quando Francesco Costa prenderà ufficialmente possesso della direzione, e probabilmente celebrerà il momento con un proprio editoriale programmatico.
Link?
Insomma sta serie su Mussolini? Pare una bomba.
E invece il fumetto su Nosferatu? Non il film eh? Il fumetto.
E poi, dal medesimo truce clan di gente che scrive di videogiochi:
Ho trovato la discussione intorno al Post molto interessante, tanto più per una newsletter che ha fatto spesso del metagiornalismo - giornalismo sul giornalismo - uno dei suoi punti forti. Capisco anche la delicatezza con cui trattare il lavoro di colleghi e colleghe e un progetto editoriale che funziona. L’accenno a La Repubblica e l’ingresso, veloce e limitato, di una questione “di classe”, anche se in termini di disponibilità economica, sono stati però la parte più interessante (per me). Intanto perché del progetto de La Repubblica abbiamo visto la fine: inglobato in quel sistema di potere che era nata nel ‘76 quantomeno per criticare e di cui essere un watchdog; inoltre perché l’identificazione con Francesco Costa e “il suo stile”, richiama l’identificazione sempre maggiore che vi fu tra Repubblica e Scalfari, con effetti direi negativi per entrambi: Scalfari credette di essere la bocca della Verità e Repubblica pensò di essere la salvatrice della Patria. Il Post non ha queste ambizioni, anche perché mancano la temperie culturale (il liberalismo che avanza trionfante) e i soldi (per l decomposizione di quella borghesia illuminata che già era ai minimi termini cinquant’anni fa e oggi accende l’ipoteca per una borsa di Vuitton). Però nello stile di Costa si trova proprio questa superficialità roboante che caratterizzava anche Repubblica: il tentativo mai di spiegare il mondo, ma solo di sottolinearne alcuni aspetti. Fenomenologia del mondo, estetica: Costa sembra un critico d’arte, ma dei peggiori, quando per esempio nella descrizione degli USA si impunta nel volerli considerare “in marcia” perché il tasso di disoccupazione è ai minimi storici; ma che siano lavori di merda, eh questo è nel campo delle opinioni e quindi tabù. Il Post è un progetto che definirei carino, 可愛い (kawaii) in giapponese: nutriente come pocket coffee.
Io dico una cosa un po’ amara, a cui dovete fare un po’ di tare ma insomma, vedete voi. Parliamo un sacco proprio in questo posto di quanto il lavoro vada pagato, dei rischi di un’informazione gratuita scadente, del benessere dei lavoratori e dei baroni che impediscono il ricambio generazionale.
Il Post offre informazione libera di qualità (ché Morning è sempre stato a pagamento, altri podcast lo sono stati per tanto e comunque continuano a venir fatti contenuti gratis, vedi Orazio), paga, e ha un direttore che al massimo del successo del suo giornale si fa da parte per lasciare spazio alla nuova leva, di talento, che ha cresciuto internamente. Non capisco perché le regole che valgono per tutti (fare lavoro=chiedere argento) per il Post valgano meno, solo perché li percepiamo come "i buoni", e che si ignori tutto quello di cui ho scritto sopra (tra cui il fatto che un'azienda accetti di cambiare il suo prodotto di punta anche, non certo solo, per rendere più umana la vita di chi lo fa) solo perché siamo un po' infastiditi (delusi? ma perché poi) che alcuni contenuti vadano dietro paywall.
Paywall che magari già paghiamo, quindi diventa una discussione fatta solo per discuterne, un po' come quando ci si irrigidisce quando gli sviluppatori chiedono soldi per i contenuti dei videogiochi che sviluppano.