Una settimana particolarmente pesante
Il giornalismo italiano ha vissuto giorni di aspre polemiche, prese di posizione e analisi puntuali. Cambierà qualcosa? Assolutamente no.
È stata una settimana particolarmente pesante e, come sempre accade con le cose pesanti, interessante. Per chi segue questo spazio praticamente una specie di master class di Heavy Meta.
La morte di Giovanna Pedretti e il dibattito che ne è scaturito contiene infatti un sacco di cose che qua si son dette e ridette: la fabbrica di notizie basata su notizie che non lo sono, le gogne mediatiche, l’opportunità e i modi di raccontare un presunto suicidio, il puntiglio egotistico e ossessivo del fact checking, anche quando tutto sommato non è che ci fosse bisogno di imbastire questo palco, la discussione sui social come effettiva gogna mediatica, le accuse incrociate.
Il risultato finale è che in questa storia ci abbiamo perso tutti, qualcuno tantissimo, altri meno, ma non ne usciamo né migliori, né più consapevoli. I giornali hanno rosicchiato ancora parte della loro fiducia, chi vive di polemica e gogne più o meno grandi continuerà a farlo, pensando di essere una specie di supereroe del vero che fa solo il suo lavoro, chi ha reagito incattivito lo farà un’altra volta. Vabbe’, tanto ha già scritto tutto
Tra l’altro, il fact checking forse serve più come strumento di branding che come efficace argine contro la disinformazione come leggo su
Io mi son sentito come quegli scienziati nei film catastrofici che vanno in giro dicendo che ci son tutti i segni sul fatto che la situazione sta andando male, che queste temperature sono strane e che forse c’è un vulcano che sta per eruttare sotto la città.
Che poi no, non è vero, non c’è nessun vulcano che erutta, solo un lento, lentissimo marcire della situazione, che non crolla mai abbastanza, ma vivacchia, vivacchia, vivacchia, con alcuni momenti febbrili tipo questo.
Come se ne esce?
Me lo hanno chiesto su Threads mentre si parlava dei fatti di questa settimana, ma la mia risposta ovviamente è che non lo so, perché di ricette virtuose ce ne sono tante, ma che funzionano nessuna. E se funzionano sono casi estemporanei. E di sicuro non posso pensarci io che ho le mie idee, ma di certo non ho fondi.
Di sicuro so come ci siamo ci siamo arrivati. Anche perché l’abbiamo detto spesso. Abbiamo affamato e svuotato le redazioni, abbiamo appoggiato tutto su freelance in competizione e sul click da ottenere in ogni modo possibile. Ed eccoci qua.
In questi giorni è arrivata anche una prova empirica di cosa ha contribuito all’impoverimento del dibattito. E come a volte accade l’impoverimento è arrivato con la comodità. La comodità di cercare e trovare subito le cose su internet.
Secondo un recente studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Lipsia e l'Università Bauhaus di Weimar intitolato “Google sta peggiorando? Un'indagine longitudinale sullo spam Seo nei principali motori di ricerca” la risposta alla domanda del titolo è “sì”.
Secondo lo studio il web si sta popolando sempre di più di siti ottimizzati per sfruttare al massimo i motori di ricerca e fare soldi con l’affiliate marketing ricchi di link ma poverissimi di contenuto. Che non sono io che ti faccio una lista di libri su Amazon, ma editori da milioni di pagine che ci sostentano la baracca.
Non è illegale, come molte cose che fanno comunque male, ma vi sarete accorti anche voi che trovare ciò che cercate veramente su internet è diventato complicato. Banner mascherati, siti che sfruttano le keyword per attirarti su pagine col contenuto generato e privo di senso, domande clickbait, articoli nati solo ed esclusivamente per rispondere a una domanda del momento (tipo “Chi è il compagno di Selvaggia Lucarelli?”).
L’esempio perfetto di tutto questo è Aranzulla, l’ormai ricchissimo Aranzulla. Avete mai letto uno dei suoi articoli su come fare qualcosa che non vi facesse venire voglia di tirargli contro una sedia per questa ripetizione ossessiva di termini e keyword? Quello è scrivere per la seo. Scrivere perché ti capisca una macchina, non il lettore.
L’esempio perfetto sono anche gli articoli sui fenomeni web, i tormentoni, “la rete si indigna” di un sistema che divora click che vinca o che perda, quindi non perde mai. E come fai a smontare un sistema che non perde mai? Tanto se non lo fanno i giornali lo farà qualcuno su internet che fa contenuti giornalistici senza neppure il dubbio di varcare qualche linea deontologica.
La SEO, ovvero l’ottimizzazione dei siti per i motori di ricerca, è una delle principali cause per cui siti sono tutti uguali, gli articoli sembrano tutti uguali, le vostre ricerche sono tutte uguali.
Si fa un gran parlare degli algoritmi e della loro capacità di oscurare contenuti che non piacciono ai social network, ma si parla pochissimo, perché tutto sommato è qualcosa che si conosce poco, nonostante abbia modellato il modo in cui leggiamo internet oggi.
Ma perché ci sono gli articoli sugli influencer?
È un’altra grande domanda che ho sentito girare in queste ore. Sarà che su Threads la mia bolla sembra particolarmente insofferente alla professione, qualsiasi cosa questa sia.
Partiamo dicendo una cosa: come funzionano oggi molte redazioni? Forse l’abbiamo già detto, ma tanto vale ripeterlo. Normalmente c’è un piccolo gruppo di interni che gestiscono il grosso del lavoro, il resto lo fanno molti freelance esperti in vari campi che a volte si azzannano per un po’ di attenzione e per l’idea buona. Il controllo è relativo, basta che funzioni, basta che tu non scriva stronzate particolarmente grosse, basta che porti click. Anzi, se ci metti un po’ di polemichetta o qualcosa che triggera l’uomo della strada meglio ancora.
Mi è capitato spesso di intervistarne per lavoro e di scrivere su di loro. Il motivo è presto detto: raccontare loro vuol dire raccontare il mondo che cambia nel bene e nel male. Alcuni hanno storie interessanti che mescolano intuizione, tempismo e fortuna. Che si parli della ragazza da sette milione di follower che mette le protezioni sugli schermi o del ragazzino che gioca su Twitch.
In questo panorama parlare di personaggi del web funziona sempre, però ci son da fare dei distinguo.
Perché dentro la parola influencer ci finisce un po’ di tutto: la ragazzina che fa storie dai locali pagata come quelli che facevano girare le riduzioni delle discoteche negli anni ’90, il tizio che vuole campare giocando ai videogiochi, quella che ti insegna l’armocromia, la cosplayer, il venditore di corsi in palestra, quello che vuole recensire telefoni, quella che parla di manga, il tizio che fa attivismo, ma pure io, alla fine. Persone che spesso cercano di trovare il confine sottilissimo tra l’interesse vero e la speranza di un sostentamento.
C’è chi ne fa un lavoro con serietà, programmazione e puntualità e chi lo fa a caso, male e con fini poco chiari.
Il risultato sono contenuti di tantissimo tipo, con linguaggi, etiche personali ed estetiche molto diverse tra di loro. Spesso è anche gente che fa contenuto giornalistico e divulgativo. Insomma, è un po’ come parlare di videogiochi: quando li nomini ognuno ha un’idea mentale e spesso si conoscono meglio gli esempi che disprezziamo.
Tra l’altro “influencer” è un termine che si cerca di usare pochissimo nell’ambiente, perché porta con sé quel retrogusto di pifferaio magico un po’ truffaldino. Molto meglio content creator, che fa un demiurgo. Anche se, parer mio, tutti siamo content creator ma non tutti sono influencer.
In queste ore se ne è parlato molto perché il caso Ferragni ha, come spesso accade, titillato la voglia dei governi di una risoluzione al volo con nuove norme e nuove leggi. Peccato che quelle norme siano già in parte ampiamente rispettate da un sacco di content creator. Mi viene da dire, persino più dei giornali e dei brand che in questo periodo cercano vendetta nei loro confronti.
Eppure, di content creator nei siti d’informazione si parla tanto, una convivenza forzata in cui entrambe le parti sanno che c’è qualcosa da guadagnare. Da una parte le nuove figure ottengono una validazione dal vecchio ordine, dall’altra le testate dimostrano di stare sul pezzo e i click della fanbase non fanno mai male.
Il problema è quando il racconto si trasforma in un piazzamento pubblicitario nascosto, magari quando l’influencer non è ancora del tutto esploso e un articolo che spinga in alto i follow e ti piazzi nelle ricerche (si torna sempre alla SEO) il pezzo, magari per amicizia, magari per accordi occulti volti a lanciarlo.
Il mio consiglio è di non odiare il concetto di influencer, ma di imparare a conviverci come si è sempre fatto con vip, personalità varie, opinionisti e così via. Non andranno via domani, non succederà dopo domani. E se dovesse succedere saranno soppiantati da altre cose che ci daranno fastidio.
Anche perchè alla fine si torna sempre là. C’è una domanda e un’offerta, ci sono redazioni che scelgono scientemente di parlare di certe cose e persone che decidono di leggerle. Una volta c’erano categorie ben precise di pubblicazioni, approfondimenti, cronaca, politica, esteri, gossip e così via. Oggi il buffet prevede di tutto, sta anche a noi decidere di scegliere.
Note personali
Posso solo ringraziarvi tutti e tutte tantissimo per la stima, il passaparola, le raccomandazioni, per continua e tangibile cresciuta che sta portando la newsletter oltre i 1400 iscritti e spero sempre più su. Ammetto che questo mi genera una certa ansia, ma fa parte del gioco.
Sto riprendendomi in questo periodo da un periodo complesso, come lo è sempre l’inizio dell’anno e il ricordo dei lutti passati. Ma la regolarità di questo spazio mi dà forza, così come aver iniziato un percorso per cambiare alcune cose sul lavoro. Saranno forse cambiamenti carsici, sotterranei, almeno all’inizio, ma spero presto che tutto diventi un nuovo bellissimo fiume di parole.
Link e altre cose
Ho parlato di quanto mi piace Monarch, la serie sul lato umano dei mostri grossi.
Ma su N3rdcore si è parlato anche di fumetti belli, calcio in posti sperduti e… Warhammer.
C’è uno studio che parla della mancanza di correlazioni tra la violenza videoludica e la carenza di empatia. Insomma, se sei uno stronzo non è colpa di GTA V.
Il “lungotermismo” mi terrorizza tanto quanto quelli che non vedono oltre la propria generazione.
Se avete sentito la GenX e i Millennial urlare è perchè Smemoranda è fallita.
Diciamo che, alla fine, il gossip è l'unico genere giornalistico che non muore mai. Prima erano attori e attrici, ora sono influencer e affini.
Sulla SEO sono molto d'accordo, ci torno anche io brevemente nella mia prossima newsletter. Credo che il guaio dei social sia anche che parlando tanto (giustamente) del loro fallimento, ci siamo persi quanto stiano peggiorando i motori di ricerca, nel frattempo