La Cultura nelle Camerette
Immaginate di essere i primi a superare un limite tecnico fino a quel momento impossibile da valicare e venire giudicati per la vostra stanza.
Willis Gibson, detto Blue Scuti, è un tredicenne che in queste ore è riuscito a “finire” Tetris, ovvero un gioco virtualmente infinito, come sappia chiunque abbia giocato al titolo inventato da Aleksej Leonidovič Pažitnov nel 1984.
Ci è riuscito sulla versione per NES, quella ufficiale per i tornei, sfruttando la possibilità di mandare in crash il gioco oltre un certo livello, sfruttando anni di allenamento e alcune tecniche ben precise e molto note nell’ambito dei tornei di Tetris. Fino a questo momento c’era riuscita solo una IA programmata per giocare a Tetris. Sono sicuro che la notizia vi sarà arrivata in qualche modo.
Gibson non ha salvato vite, per carità, è un record assurdo come un altro, ottenuto come si ottengono prestazioni eccezionali: allenamento, abnegazione, ossessione e qualcuno che ti supporta, soprattutto se sei così piccolo. Ci sono bambini bravissimi nel pianoforte, altri che suonano il violino, alcuni che già dribblano come un adulto o si preparano all’olimpiade. Blue Scuti ti spacca il culo a Tetris e neanche te ne accorgi.
Non salva vite, ribadisco, come nessuno di noi, semplicemente si è messo in testa un obiettivo molto difficile per entrare nella storia e ci è riuscito superato i confini tecnologici di un videogioco. Dimostrando, se non altro, una capacità di abnegazione ben più alta della maggior parte delle persone per qualsiasi cosa. Lo sa bene chi ha già dato fuoco ai buoni propositi di inizio anno.
Camera con vista
Il fatto è stato tendenzialmente ripreso in modo neutro, alla fine non ha bisogno di ulteriori infiocchettamenti. È la classica notizia di costume che funziona. C’è un gancio nostalgico forte, c’è di mezzo un bambino e un record o comunque qualcosa di straordinario.
Poi però è arrivato il commento di Concita De Gregorio, su La Repubblica, intitolato “Cosa farà in cameretta”. E già si parte male.
Il breve commento da una parte apre la possibilità che boh magari ‘sti ragazzini coi computer qualcosa combinano e magari diventeranno dei geni, ma il sottotesto strisciante parla di isolamento, di camerette senza luce naturale, di attività fisica surrogata da vogatori, tapis roulant e così via. Un commento “maternalista” che abbraccia anche chi avrebbe commentato il “risultato storico”, sì, con le virgolette.
Perché tutto ciò che in fondo non comprendiamo fino in fondo diventa da mettere tra virgolette. Boh, mah, sarà, guarda te ‘sto ragazzetto rintanato come un topo cosa ha fatto. Che poi ricordiamoci che nelle camerette, come nei garage, sono nate aziende che oggi governano il mondo.
Ma il punto non è questo, il punto è che il rispetto lo si dovrebbe avere a prescindere da un eventuale successo capitalista potenziale di Willis Gibson in futuro. Nessuno probabilmente avrebbe detto niente se avesse fatto qualcosa di molto meno straordinario e complesso, tipo leggere un libro. Nessuno guarderebbe la cameretta di un bambino che a 13 anni diventa campione di matematica o scrive un bestseller.
Ma poi, quanto ne sa De Gregorio della vita sociale di questo tredicenne?
Forse una intervista del New York Times ai genitori avrebbe chiarito la situazione e mostrato che, tutto sommato, la vita di Gibson non è così assurda. Solo concentrata su un obiettivo, come le vite di tanti ragazzi e ragazze.
Che vi devo dire? Che da una parte non sono stupito. In un servizio su Report sono stato chiamato “nerd cresciutello” mentre spiegavo i rischi e lo scenario delle microtransazioni nei videogiochi, quando ho spiegato Pokémon Go sulla Rai nel 2016 cercarono in tutti i modi di farmene parlare male.
Ognuno e ognuna di noi può raccontare almeno un episodio in cui parlare di videogiochi è diventato veicolo di una certa commiserazione.
Per fortuna molto meno di prima, ma sempre un po’ più di quanto sarebbe lecito aspettarsi in una società moderna, pur considerando le complessità di accesso al medium. Certo, diciamo pure che i videogiochi (e chi ne fruisce) stanno uscendo forse ora con molta fatica dalla loro fase adolescenziale, quindi da anni chi descrive il settore come infantile (o infantilizzato) ha gioco molto facile.
Anche stavolta tuttavia non si può che registrare il danno di un paese fermo al palo, aggrappato all’idea di cultura del buon libro che ogni anno ne fa pubblicare centinaia e vendere pochissimi. Che svende le città d’arte a una torma di gente che le consuma per la propria experience su Instagram. Che non vede al di là dei suoi gloriosi passati.
Spiace poi che il commento arrivi da De Gregorio, che è anche direttrice di Hollywood Reporter, dove i videogiochi vengono trattati con rispetto (chissà se lo sa). Spiace sia perché come al solito si usano spazi altamente visibili per ricacciare nelle proprie nicchie chi prova faticosamente da anni a uscirne.
Ma spiace anche perché questo snobismo, questo approccio dalle buone cose di una volta, questa trincea che sarà spianata dal tempo è la stessa che anni fa lasciò Tolkien in mano alla destra, che fu ben contenta di farlo suo.
E non è un caso se pure i videogiochi alla fine diventano un ottimo spazio di reclutamento per sovranismi vari. E intanto i giocatori continuano a guardare male certa stampa e certa stampa continua a vederli come un branco di nerd cresciutelli.
Però dai, almeno stavolta c’è chi ha fatto peggio dell’Italia.
Eppure ci siamo
Questo articolo mi è utile anche per una riflessione di rimbalzo: nelle reazioni che ho avuto postando l’articolo su Threads (che poi doveva essere l’argomento di oggi, ma si scalerà a settimana prossima, anche perché più tempo ci passo e meglio verrà la riflessione, presumo) in molti hanno risposto che tanto la stampa generalista è così, che fa tutto schifo, che altrove le notizie di videogiochi trovano spazio su testate importanti e così via.
Questo mi ha fatto molto pensare perché… beh tecnicamente non è vero.
Da noi ci sono giornalisti e giornaliste con alle spalle solidissimi retroterra “da gamer”, qualcuna ve l’ho fatta conoscere pure qua.
Si scrive di videogiochi su Repubblica (da dove viene questo pezzo d’opinione), Corriere, Sole 24 Ore, Gazzetta, lo si fa in Rai (lo so perché lo faccio io) e in tanti altri spazi. Sono anni che il sottoscritto e tanta altra gente si sbatte, ci prova, sbrocca, racconta, semplifica e fa tutto ciò che si può fare per raccontare almeno una parte del settore.
Però evidentemente questi spazi sono visti poco e poco conosciuti. Sicuramente poco valorizzati da chi tira le fila.
Un po’ perché chi vuole notizie sui videogiochi probabilmente non le va a cercare là. La generalista è spesso lenta, con uno sguardo più ampio e a volte superficiale, per ovvi motivi, un po’ perché, purtroppo, tocca evidenziare che come al solito mille cose fatte bene non avranno mai la stessa visibilità di una cosa fatta male.
Forse un approccio più formato e rispettoso dei videogiochi nella generalista può passare anche da un pubblico più entusiasta e pronto a condividere. Perché se chi guarda i numeri a fine mese vede che gli articoli di videogiochi vanno, magari ci investe di più: se sono roba da fare tanto per, mentre la polemichetta spinge il click, allora pazienza se vengono trattati con superficialità.
Forse per far capire che i videogiochi sono cultura dovremmo farci sentire, ma non solo quando siamo incazzati, anche quando siamo soddisfatti.
Un sistema di media che si basa sui valori positivi e non sul trigger? Lo so, ho puntato a un finale fantascientifico per stupirvi.
Nel frattempo un sedicenne è diventato campione di freccette e un quattordicenne Grand Master di scacchi. Chissà le loro camerette.
Link e spunti vari
Ho fatto i buoni propositi per quest’anno su N3rdcore. Circa, più o meno.
Qualcosa ha risuonato dentro di me con le parole di
e allora eccole qua.Vi rimetto qua la puntata di dove mi hanno fatto qualche domanda.
Francesco Costa nella sua prima mail di Da Costa a Costa sulle elezioni USA ci ricorda una verità sacrosanta.
Tolte le pochissime cose di cui possiamo fare esperienza diretta, infatti, le nostre opinioni sulla realtà si basano sulla mediazione che ne fanno le altre persone, la cultura popolare, i media, i social media. Non sappiamo quello che accade: ci viene raccontato da qualcuno.
Ah si, il giornalismo, si diceva. Massimo Mantellini la tocca piano:
Un giorno parleremo anche del “framing” e di come si danno le notizie.
Vi passo anche il testo con cui Raffaele Oriani, si è congedato da Repubblica a causa del modo in cui sta raccontando l’invasione di Gaza da parte dell’IDF in seguito all’attacco di Hamas.
"Non salva vite, ribadisco, come nessuno di noi, semplicemente si è messo in testa un obiettivo molto difficile per entrare nella storia e ci è riuscito superato i confini tecnologici di un videogioco."
Ciao Lorenzo, capisco perché metti queste parentesi (si fa per dire), ma bisogna smetterla tutti (io prometto che ci proverò). Non si può essere succubi della gente scema che o cerca solo un motivo per incazzarsi o non ha la capacità di comprendere cosa sta leggendo e il suo contesto. Ora vado avanti con la lettura della puntata, pardon.
Ho iniziato a scrivere proprio ieri un discorso simile.
È che non è facile raccontare bene il videogioco.
O meglio, probabilmente non è fattibile se le persone che hai davanti non sono concentrate e disposte a comprenderlo.
Il videogames è complicato: giochi coordinando vista e riflessi, devi stare attento per seguire il flow del gioco e poi concentrarti per comprendere cosa vuole narrarti il creatore del videogioco.
Non è un medium "diretto", o forse meglio dire " monodirezionale" come il cinema, per esempio.
Si richiede sforzo attivo al fruitore, sia per avanzare che per comprendere la sua comunicazione.
Forse è una fase in cui tutti i medium passano, non saprei: ma trovo il videogioco un po' come i fumetti.
Sono "complicati" perché devi decodificare più cose in una volta sola.