La stampa videoludica non se la passa troppo bene
Appelli ai bei tempi andati e ancora chiusure ci portano alla domanda: ma qualcuno vuole leggere approfondimenti sui videogiochi?
Questa settimana voglio parlarvi di videogiochi. No! Vi prego, non scappate, non della mia passione per i videogiochi, non di un videogioco in particolare: dello scrivere di videogiochi. E sapete perché non dovreste scappare?
Perché il giornalismo videoludico, con tutte le sue storture e i suoi difetti, è un giornalismo che sta dietro a uno dei settori che si muovono più velocemente e, in qualche modo, anticipa molte cose che hanno ricadute negli altri settori della cultura pop e nel giornalismo classico.
Spesso, anticipa le cose peggiori, ma vabbe’.
I bei giochini di una volta
Se frequentate la mia stessa bolla di gente, che scrive o parla di videogiochi, magari vi sono arrivate all’orecchio le urla indignate e la ridda di commenti che hanno seguito un editoriale su TGM, sito della storica rivista di videogiochi italiana (probabilmente tra le più longeve in Europa), che titola: “Ma non potremmo giocare ai videogiochi e basta?”
È un editoriale abbastanza cerchiobottista: da una parte se la prende con chi si arrabbia e parla di dittatura “woke” per ogni personaggio con orientamenti sessuali diversi da quelli etero, etnie differenti, personaggi femminili dove di solito trovavamo quelli maschili; dall’altra tira l’orecchio a chi ha polemizzato su Harry Potter o Atomic Heart con solita spuntata arma retorica dell’“e allora perché non vi indignate anche per questo, e allora quell’altro?”.
La parte più quotata è: “Nel mio mondo super liberale (sic.) c’è posto anche per videogame realizzati da chi non la pensa come me, e solo il divertimento sarà l’ago della bilancia tra promozione o bocciatura”.
Chissà che questo “basta che mi fai divertire” vale anche per le aziende che rendono miserabile la vita dei loro dipendenti con crunch time e deadline imposte dagli amministratori, chissà.
Ovviamente l’articolo, come era sua intenzione, ha scatenato un massiccio fuoco di fila.
C’è chi ha fatto notare che in questo magico mondo super liberale chi utilizza o in qualche modo si appoggia a politiche oppressive, perpetua stereotipi eccetera, viene messo sullo stesso piano di chi cerca una maggiore rappresentazione.
Chi ha evidenziato la comicità del gamer come categoria oppressa e che se il tuo problema è sentire le polemiche, polemiche che non riguardano il tuo corpo o la tua rappresentazione, forse dovresti interrogarti più sul privilegio e che alla fine nessuno ti strappa il cavo HDMI se giochi a Hogwarts Legacy.
C’è stato chi ovviamente ha detto che invece TGM ha ragione, rivendicando il fatto che un videogioco andrebbe giudicato solo per questa fantomatica qualità del “divertimento”, qualsiasi cosa voglia dire. Che è un po’ come dire che la gente va presa solo per “il merito”.
A me preme giusto far notare il lato buffo della cosa: scegliere il disimpegno, scegliere di ignorare è un atto politico, esattamente come scegliere di schierarsi. E spesso, chi ignora, si schiera dalla parte di chi mantiene lo status quo, piaccia o meno.
Detto questo, rivendicare il diritto al disimpegno, che è una sorta di rito ciclico di ogni branca della cultura pop equiparabile al “ma fattela una risata”, mi pare anche una discreta mazzata sugli stinchi a chi cerca in qualche maniera di portare il discorso non tanto a un livello più alto, ma a un livello alla pari con le altre forme di intrattenimento.
Forme in cui discussioni sulla componente sociale e il contesto in cui si muove l’opera sono previste, normate e accettate.
Forse il focus dell’editoriale che, come ogni uscita estemporanea, non cambia la situazione, era più sulle solite polemichette del giorno in cui tutti ci schieriamo quotidianamente facendo la conta di buoni e cattivi.
Ma sentire un giornalista sbottare perché si vuole solo divertire sembra proprio remare contro ciò che il giornalismo e la critica dovrebbero fare e che nei videogiochi si è sempre fatto poco, alimentando un pubblico che voleva essere intrattenuto e non incuriosito e arricchito. Remare contro gli articoli che hai sul tuo stesso sito. Perché su TGM gente che fa critica ce n’è.
Un gesto che alla fine pare voler lascare tutto in mano a creator che evitano ancora più dei giornalisti gli argomenti controversi e di disturbare i PR (a meno che non ci sia da fare teasing su una cosa che hai visto e che dovresti tenere per te, per rispetto del lavoro altrui).
Ma il problema è che questo articolo, se si va a guardare il panorama della stampa videoludica, sembra perfettamente allineato con con alcuni malumori e notizie di chiusure che potremmo riassumere con: ma non è che forse le discussioni sui videogiochi interessano poco, soprattutto sulla stampa generalista?
Ciao Waypoint
È di queste ore infatti l’annuncio che Waypoint, costola di Vice dedicata alla critica videoludica, chiuderà a giugno del 2023 dopo 7 anni di attività.
Apprendo la notizia da Kotaku e, come fa notare
, autore di , per noi giornalisti italiani fa strano che un sito parli della chiusura di un sito "concorrente" e mostra, forse, la grande differenza del giornalismo americano e anglosassone rispetto a noi.Quando successe a Eurogamer Italia nelle redazioni della concorrenza nessuno pensò di scrivere una parola, neanche un saluto. Sia mai che per sbaglio il lettore venga distratto dall’ennesimo rumor, sia mai che sia dia un centimetro alla concorrenza, anche quando non lo è più.
Kotaku parla di Waypoint e lo descrive come un sito (e un podcast) interessante che trattava i videogiochi con rispetto. Un sito che, conscio del fatto che se vuoi sapere come spendere i tuoi soldi puoi farlo altrove, cercava un altro taglio sul settore.
Uno slow journalism che sembrava andare totalmente contro una delle nicchie del giornalismo più veloci, irrazionali ed emozionali. Pare fosse anche molto apprezzato per la sua capacità di coprire con la stessa cura giochi indie e grandi produzioni.
Questa chiusura si inserisce in un quadro più ampio che si lega anche alla crisi post pandemica che ha falcidiato o modificato drasticamente molti progetti.
A inizio anno si è fermato anche Launcher, spin-off del Washington Post dedicato a videogiochi ed esport. Un fatto che pose sul tavolo la domanda “Ma se nemmeno i soldi di Amazon ti fanno venire voglia di tenere comunque aperto un sito di videogiochi, anche in perdita, magari con la speranza che la situazione migliore, che scrivimo a fare?”
Ma anche “fuori dai siti specializzati c’è spazio per parlare dei videogiochi?”
E pure giornalisti in condizioni economiche nettamente migliori delle nostre e tutt’ora con un lavoro iniziano a capire che la situazione non gira bene.
Queste notizie però, al di là delle crisi, ci raccontano anche di come sta cambiando il giornalismo di settore, il giornalismo “pop”, il giornalismo in generale.
Parlare al muro
Parto dal mio caso personale: ho mollato la specializzata circa sei anni fa perché ero stanco di quello che era praticamente uno schema piramidale con pochi ben pagati e tanti che si arrabattavano per due spicci, il tutto condito da un ambiente tossico, polemico e ipercompetitivo dove ogni voto, ogni uscita, ogni articolo viene pesato, insultato e trascinato nella polvere sia dalla parte peggiore dei “colleghi” sia dal pubblico che è sempre convinto di saperne più di te, anche quando non ha toccato il gioco di cui stai parlando.
Non che il giornalismo classico sia meglio, ma almeno i ritmi sono più rilassati e la paga per articolo, spesso, più alta.
La mia esperienza con la generalista però mi ha fatto capire una cosa: o c’è qualcuno in redazione che in qualche modo si interessa dei videogiochi e spinge per farli entrare tra i contenuti del sito e dargli una collocazione rispettosa, oppure difficilmente troveranno spazio.
E quando lo trovano è difficile che quegli articoli vengano cliccati da un pubblico che non va là per leggere di videogiochi.
Questo, ovviamente, a meno che non ci siano polemiche sui videogiochi violenti o qualche caso particolare tipo Pokémon Go, recensioni di FIFA ecc.
Certo, negli anni la situazione è senza dubbio migliorata rispetto al passato e i videogiochi sono riconosciuti come una parte importante della cultura contemporanea, tanto che ho visto recentemente sul TG1 un intervento di Thalita Malagò, direttrice generale di IIDEA, associazione di categoria degli sviluppatori italiani: ma gli spazi che vedete sono spesso conquistati con le unghie e coi denti, grazie a direttori illuminati o grandissimi rompicoglioni, come me.
Purtroppo, raramente i videogiochi fanno click fuori dai propri spazi di elezione. Soprattutto in un contesto in cui nessuna testata può permettersi di non capitalizzare al massimo ogni click.
Perché ancora oggi chi segue i videogiochi li segue soprattutto sui siti specializzati, quando legge, altrimenti si vede più volentieri un video su YouTube, una diretta su Twitch o ne parla nelle community su Telegram e Discord.
Il pubblico medio di Corriere, Repubblica, La Stampa, ma anche Wired e via a cascata sui siti ancora più generalisti, tendenzialmente non è interessato a leggere di videogiochi là. Non è abituato a farlo, non è stato abituato a farlo prima e oggi le nuove leve cercano altrove. E anche chi gestisce le redazioni raramente offre spazi in prima pagina, che è dove si ferma la maggior parte del pubblico.
Ovviamente poi capita sempre il pezzo che va bene e lavorare per giornali grossi garantisce vantaggi di prestigio che consentono interviste e contenuti esclusivi.
La possibilità di scegliere contenuti con maggiore calma rispetto al flusso della specializzata, può essere un valore aggiunto. Nella mia testa, vale più interessare ai videogiochi chi li ignora o addirittura chi li schifa, che fare l’ennesimo report sui personaggi femminili più amati o raccontare l’anteprima di un titolo che potrebbe essere stravolto fra un mese con un aggiornamento.
Però, è palese che gli approfondimenti, gli speciali e così via, nella maggior parte dei casi, scelte di posizionamento. Che si parli di specializzata o generalista.
Si scrivono per potere dire “ok non facciamo solo robaccia”, per poter dire “siamo un giornale attento al cambiamento e non solo per vecchi” e si scrivono perché alla fine anche lato PR è sempre bello fare un report dove dimostri che sei uscito dalla bolla.
È evidente che i siti generalisti non posso competere con la capillarità e la velocità di quelli specializzati, che a loro volta ormai non posso competere con il linguaggio dei content creator e con l’importanza sempre maggiore dei volti rispetto ai portali.
Il panorama che ci si presenta oggi è complesso perché i siti specializzati sono costretti a compromessi sempre maggior per stare a galla. Aprirne di nuovi è durissima e spostare il pubblico ormai abituato a una certa routine è impossibile figuriamoci trovarne di nuovo.
I siti generalisti non se la passano comunque bene, anche in questo caso fondarne di nuovi è estremamente oneroso, e spesso devono chiudere o ridimensionare qualcosa: a quel punto forse preferiscono tagliare la recensione di un bel gioco indie che l’ennesimo pezzo sull’umore di Elon Musk e nel mezzo ci sono tante belle penne che rimbalzano, ci provano, cercano di finanziarsi in qualche modo.
E tutto questo in un mercato dove, alla fine, parliamo quasi solo di ciò che accade al 10% del settore, ovvero il mondo PC e Console. I giocatori mobile vengono quasi del tutto ignorati e serenamente ignorano.
Intendiamoci, il concetto di “parlare di videogiochi” sta benissimo: però il modo in cui viene fatto, le piattaforme su cui viene fatto e il pubblico che legge sono in costante mutamento e non sempre questa evoluzione è accompagnata da un progresso. Soprattutto se alle fine le decisioni sono prese da gente che guarda solo il click e non gli interessa come viene ottenuto.
Forse dobbiamo semplicemente lasciare spazio al ricambio generazionale, fino al momento in cui sarà normale per un cinquantenne leggere di un gioco che ama su ciò che avrà probabilmente sostituito i quotidiani nel 2050.
Anche perché, in un mondo in cui ci si informa sull’editoria e sui libri aprendo Tik Tok, come possiamo pensare di parlare di videogiochi su un sito, magari generando pure abbastanza traffico da campare?
Anzi, spesso bisogna semplificare, semplificare, semplificare. Fai i reel, fai le slide, riduci all’osso, che la gente non ha tempo. E questo processo, iniziato nella stampa videoludica, oggi lo vedete ovunque. Per questo dovreste stare attenti a cosa succede nel settore: è il brodo di coltura del futuro.
Personalmente credo ancora molto nello scrivere di videogiochi, credo nel cercare di raccontarli a chi ne sa poco e provare a confrontarmi anche con chi ne sa più di me e chi è appassionato.
Ma fuori dalla bolla, a qualcuno interessano i videogiochi? Qualcuno ci ascolta?
Link!
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Suzume, il nuovo film di Makoto Shinkai a cura di
.Abbiamo parlato di Evil Dead ne La Bussola D’oro, il podcast con Rrobe e in un articolo.
La mia già la sai, aggiungo solo che quando guardo indietro rispetto all'ora mi sembra di vivere in un mondo alieno. Ho iniziato a "sognare" di fare questo mentre di giorno leggevo TGM preso all'edicola vicino al Bar di famiglia in cui passavo il tempo e nel pomeriggio scrivevo recensioni/articoli su Forumcommunity. In un modo o nell'altro la mia passione era autoalimentata da me stesso e dai pochi che frequentavano i forum, con cui misuravamo il nostro rapporto in effettive risposte e non in Mi Piace. Fossi giovane adesso non riuscirei mai e poi mai a vedere una redazione come canale d'ingresso, piuttosto è meglio darmi da fare da solo
Ti ho letto con qualche giorno di ritardo, ma la riflessione che hai portato e che mi hai fatto fare ha radici molto profonde per quanto mi riguarda. Me lo chiedo sinceramente poco per i videogiochi - anche se ne gioco e mi sto appassionando sempre di più e mi piacerebbe parlarne, senza presunzione però di avere verità o conoscenze che non ho - ma me lo chiedo fortemente per il mondo anime e manga, anche se l'ultimo gode di un posizionamento lievemente migliore.
Mi hai dato da pensare ancora di più e ancora maggiormente proverò ad indagare il web ma anche le persone là fuori in carne ed ossa, nel tentativo di capire e trovare una strada. Intanto grazie per aver fatto un buon quadro della situazione e incrociamo le dita.