L'insostenibile fascino del supporto fisico
Perché in un mondo digitale in cui possiamo arrivare a milioni di persone ancora vorremo scrivere su libri, riviste e quotidiani.
Questa settimana mi è successa una di quelle robe che di solito accadono nei film: tornare nella scuola dove ho fatto il liceo per parlare del mio lavoro, del mercato dei videogiochi e dei content creator. È stato molto strano perché la scuola è rimasta identica: stessi banchi, stesse porte, stessi corridoi, stessi spazi. Solo la palestra finalmente agibile, ventiquattro anni fa non lo era. Il fatto poi che oggi la moda richiami in qualche modo quella degli anni ’90 è stato un ulteriore motivo di sfasamento temporale.
E per quanto sia una persona abituata a parlare in pubblico e che ha affrontato platee di qualche centinaio di persone, platee di zero persone, radio, televisioni e così via posso dire che non ero così nervoso da tanto. Sia perché parlare coi ragazzi è sempre un’incognita sia perché in qualche modo si sono riattivate una serie di memorie muscolari: il passare rasente ai muri, cercare di nascondersi e il dubbio di come cavolo abbia fatto a farmi tutte le scuole dell’obbligo, i compiti, alzarsi tutte le mattine alle sette e mezza e l’interfacciarmi con gli altri senza impazzire.
Come è andata coi ragazzi? Credo bene, non sono riuscito a decifrarli, non parevamo molto interessati al fatto che ero un ex alunno, però, come sempre succede, quando gli parli con rispetto e senza paternalismi apprezzano. Quando gli dici le cose come stanno senza scoraggiarli subito lo rispettano.
Sono passati più di vent’anni da quando andavo a liceo, ma nel frattempo spero di essere diventato l’adulto che avrei voluto incontrare da grande.
Fresco di stampa
Parlando di ritorni, è interessante notare come la società dei media vada avanti, progredisca, ma non possa fare a meno di alcuni strumenti che facciano da ancora, da fulcro. Di come a volte la tangibilità conservi un ‘aura che manca al digitale e di cui non possiamo fare a meno, neppure di fronte alla freddezza dei numeri.
Prendiamo i quotidiani. I numeri ci dicono che ogni anno, ogni mese, le vendite di quotidiani calano. Possono esserci dei momenti di vendite più alte, ci possono essere degli abbonamenti ma il concetto di lettura del quotidiano sta lentamente scomparendo assieme alle edicole. Non sarà oggi, non sarà domani, ma nel frattempo i quotidiani restano baracconi costosi, che non si ripagano, tenuti in piedi con qualche contratto, un sacco di Partite IVA e che vengono sfruttati come giocattolo di padroni che li usano per darsi prestigio.
Eppure, se chiedete a un PR se vuole tre articoli sulla sezione online o un trafiletto sulla carta probabilmente sceglierà la seconda. Anche se i lettori potenziali sono molti meno, anche se i numeri gli dicono che non gli conviene. E la verità è che se mi chiedessero di scegliere probabilmente anche io andrei sulla carta.
Pur con tutti i vantaggi della società digitale e anche se, come si dice, il giornale di ieri è buono per incartare il pesce, il fascino del quotidiano resta inalterato.
In parte c’è il gusto di qualcosa che non svanisce istantaneamente nel flusso di internet in parte è una questione di scarsità. Lo spazio di un giornale è finito, ogni scelta viene ponderata (so che non è così e spesso sul giornale trovano spazio opinioni e penne che non lo meriterebbero, ma facciamo finta sia così) e ogni centimetro a valore. Se finisci sulla carta hai superato una serie di barriere che non hai sull’online. E poi le foto su Instagram del giornale sono meglio degli screenshot.
Il profumo della carta
Per motivi simili ma anche differenti c’è questa rincorsa al voler pubblicare un libro in un Paese dove la gente legge sempre meno, se ne pubblicano migliaia l’anno e la grandissima maggioranza non superano neppure le mille copie. Anche qua, parlo da persona colpevole e coinvolta: pubblicare un libro è un’esperienza tangibile in un mondo di testi che vediamo sullo schermo. Il libro lo tocchi, lo sfogli, è lì.
È la differenza tra disegnare una sedia in 3D e creare una sedia lavorando il legno. Adoro il virtuale, mi piace vedere un mio pezzo condiviso ma mi piace anche pensare che c’è qualcosa di scritto da parte mia che sta sulle mensole, anche nei mercatini di libri usati, e magari trova altre persone, altri occhi.
E poi i libri hanno una vita strana, differente da moltissimi altri prodotti. Un libro può continuare a trovare un pubblico anche molti anni dopo. Io il mio l’ho scritto quattro anni fa e ancora, anche grazie alla riedizione, mi capita di fare incontri, presentazioni o di leggere qualcuno che mi scrive in privato per dirmi che gli è piaciuto.
Quindi sono anche qualcosa che in qualche modo parla di te attraverso il tempo e non ti costringe a pubblicare ogni giorno per ricordare al mondo che esisti.
In senso molto più ampio, il libro è diventato quasi un percorso obbligato anche per tanti content creator, non solo come fonte di guadagno, non solo come gadget per i fan, non solo perché le presentazioni sono pur sempre un ulteriore veicolo di promozione, ma proprio per la fisicità dell’oggetto, per il valore che diamo in modo conscio e inconscio al libro.
Sono qualcosa che resta e che va oltre il reel, il video, il digitale, la conferenza. Possiamo stringerli tra le mani, toccare la copertina, annotarli, dedicarli.
Non ce la facciamo, è più forte di noi, anche per me che campo di ebook, vivo di contenuti digitali dall’adolescenza, li fruisco, li amo e che trapianterei la mia coscienza in un androide, il libro e il supporto fisico hanno un fascino ancestrale.
Quel fascino su cui campano tutte quelle case editrici che ti fanno pagare per stampare il libro, diciamolo tranquillamente.
Eppure non si scappa, è una sorta di investitura del mondo reale, è, più in grande quel senso artificiale di “ok le tue parole hanno più valore se vengono spesi dei soldi per stamparle”, che è un discorso assolutamente opinabile, ma ci piace così.
Che poi è lo stesso motivo per cui “certo che dovrei prendere gli articoli di N3rdcore più belli e farne un trimestrale o comunque una rivista” è qualcosa che penso almeno una volta ogni due mesi da circa dieci anni.
In senso più ampio, mi ricorda quel bisogno di investitura che chi ha fatto successo coi nuovi media cerca in quelli tradizionali. Lo youtuber che fa il film, l’ospitata televisiva. E mi fa sorridere che in qualche modo oggi il “vecchio media” a cui tornare sia diventato il sito internet personale o il blog.
Se scavo meglio dentro questo sentimento credo ci sia il bisogno di sentirsi nuovamente in controllo di quello che facciamo. Forse preferisco una fanzine o un blog che posso distribuire come voglio rispetto al contenuto social che ha molto più potenziale ma che dipende dai capricci di un algoritmo che decide se quello che fai dev’essere mostrato in base a quel che dici, come lo dici, quando lo dici.
Ma perchè farlo?
E ogni volta il pensiero successivo è quello che sperimentiamo tutti e tutte: non ha senso, non ci son soldi e chi mi legge?
Che poi è la domanda finale: ma chi mi legge? Ma chi mi viene a vedere mentre parlo di qualcosa? Ma chi gliene frega dei miei reel, di tutta la roba che metto su N3rdcore e un giorno sparirà improvvisamente o finirà in un hard disk che lentamente morirà in una cantina?
Non lo so proprio, però come tanta gente qua su Substack io devo continuare a farlo. Perché se non lo faccio sto peggio. Non che quando scriva stia bene. “Odio scrivere, adoro aver scritto” diceva Dorothy Parker e aveva ragione da vendere.
Così come ha ragione Evandro Straccini, figura su cui vorrei tornare, a continuare a scrivere anche se non lo legge praticamente nessuno e si autopubblica perdendoci i soldi e il sonno.
"Ed Wood, che fu etichettato come il peggior regista di tutti i tempi, partoriva storie deliranti, spesso scritte e girate in pochi giorni, ma ne parlava con lo stesso trasporto amoroso che Orson Welles riservava a Quarto Potere, e di Welles bramava di rivivere la parabola artistica. In Evandro questa componente megalomane è sopita: ogni tanto ci scherza sopra, dice che scrive per vendere milioni di copie, ma in realtà, mi ha confessato, gli basterebbe una mano sulla spalla ogni tanto, qualcuno che gli dica «bravo».”
Postilla
Incredibile come passino gli anni ma alcune manifestazioni siano ancora preda dei medesimi trucchetti di framing: l’annullamento di ogni sfumatura che si ottiene martellando su un solo e un solo tema, l’utilizzo furbo di persone violente che catalizzano ogni obiettivo che fanno scomparire le parti più tranquille del contesto. La solita strisciante idea di chi sta in piazza tutto sommato si merita di essere menato.
E alla fine, c’è poco da dire, la stampa diventa organo di governo, anche quella che di solito lo martella, basta trovare lo slogan giusto da fargli ripetere.
Link!
Ho scritto qualcosa per i 35 anni di Prince of Persia, parla di stupore, bellezza, corpi e morte.
Ovvero un almanacco dei giochi usciti ogni giorno dell’anno. Ci scriverò anche io qualche ricordo sconnesso.
E ne fa anche un podcast con
che invece è quello diInsomma, continuiamo a fare cose.