Ma quando finisce la gavetta?
In che condizione ti trovi se devi costantemente essere pronto a imparare senza chiedere troppo per tenerti stretto il tuo lavoro?
Perdonate lo spam, ma prima una comunicazione di servizio. Se siete a Firenze il 25 febbraio mi trovate a Testo per una conversazione sui videogiochi con Vera Gheno e Frabrizia Malgieri. Si parla insomma di videogiochi in uno degli spazi dove di solito non erano ammessi, quelli della Cultura con la C maiuscola, non mi pare poco.
Si conclude oggi la Settimana Santa di Sanremo (fondamentali i recap di
e il canale Telegram di Rrobe per staci dietro), forse il momento culturalmente e mediaticamente più interessante dell’anno per quanto riguarda il panorama italiano. Sgomberiamo il campo da ogni snobismo o questione sulla qualità, i soldi spesi, gli ospiti eccetera, semplicemente, in Italia niente può contare su questa attenzione, questi mezzi e questo bisogno di creare uno spettacolo in cui tanta gente così diversa prova a rispecchiarsi.Per una manciata di giorni milioni di persone con condizioni sociali e demografiche diverse tra loro guardano e commentano la stessa cosa. Sanremo è specchio e megafono di una grande parte del Paese, anzi, ne è il suo caleidoscopio, o il suo grande buffet.
Il messaggio sociale sgomita con lo stacchetto comico, la (storta) retorica dei malati “guerrieri” e della malattia come dono cede spazio al ballo liscio, l’ospite internazionale viene celebrato, perché siamo provinciali, ma irriso, perché gli eroi storicamente ci infastidiscono, il pezzo sui migranti o il suicidio precedono la ballata sull’amore.
Sanremo non nasconde niente, ti dice tutto, e tutti vogliono usarlo per dirci qualcosa. Lo sapeva bene la Ferragni l’anno scorso che l’ha usato in tutti i modi per cementificare la propria narrazione (che comunque forse poggiava sulla sabbia delle beneficenze), lo sanno gli agricoltori che premono per avere udienza. Il palco di Sanremo è pericoloso e affascinante, dannoso e virtuoso.
Tutti pensano di essere famosi, tutti pensano di affrontare un tema noto, poi arrivano all’Ariston e scoprono di cosa parla davvero la gente.
Vi basti sapere che la parola “queer” ha visto un’impennata di ricerche in Italia perché è stata pronunciata al termine dell’esibizione di Big Mama. E io come voi pensavo che fosse un termine stranoto, anche perché non sono mancate negli ultimi anni esibizioni palesemente queer proprio su quel palco. E invece forse non è così.
E questo senza contare tutti quelli che attorno a Sanremo ci costruiscono pubblico e views, anche quelli che lo schifano, anche quello è posizionamento, anche quello è cercare il tuo pubblico (e forse ammettere tra le righe con fastidio che non riesci a sfruttarlo bene come altre cose, e quindi “uffa che noia Sanremo).
È assolutamente legittimo, ovviamente, schifarlo, anche perché lo spettacolo è spesso impietoso, d’altronde è lo specchio del suo pubblico, ma se lo ignorate vi perdete una masterclass gratuita sul mainstream e sulla comunicazione di massa. Sanremo è come la paura, non si evita, si attraversa.
L’altro giorno leggevo la newsletter di
e a un certo punto mi sono trovato di fronte alla parola “gavetta” e mi sono fermato. In testa mi è apparsa subito la domanda: “Ma tu, quando l’hai finita la gavetta?”. La risposta non è stata semplice, ma il percorso per arrivarci può essere interessante.Fare la gavetta, termine militare che indica il recipiente del cibo per il soldato semplice che aspira aigradi di ufficiale, sì sa che vuol dire fare pratica, apprendere gli strumenti del mestiere, magari sbagliando o facendo compiti più umili per poi via via crescere nelle proprie mansioni, se possibile assistiti da qualcuno.
Le narrazioni popolari sono piene di gavette: quelle dello sportivo giovane che deve sudarsi il posto, figure imprenditoriali partite dal nulla (spesso nascondendo privilegi), biografie di persone che hanno iniziato con poco e via via si sono create una professione.
Ma finisce mai veramente la gavetta se il tuo lavoro cambia costantemente e sei costantemente raccontato come quello che deve imparare o farsela bastare, che fuori tanto è pieno di “ragazzi di bottega” che aspettano?
Certo, se penso ai miei primi passi nel giornalismo mi ricordo di ore in motorino spese girando per i paesi della piana fiorentina a seguire notizie di cronaca o interminabili e tediosi consigli comunali. Il tutto, ovviamente, per due spicci. Le prime esperienze con le news di videogiochi, le prime recensioni, il primo press tour, le prime interviste.
Giorni ormai lontani in cui ho iniziato a capire come selezionare una notizia, come raccontarla, come iniziare un pezzo, come creare una rete di contatti e così via. Quella fase di gavette ovviamente è finita ed è arrivato “Il Mestiere”, ovvero il bagaglio di competenze, a volte inconsce, che dopo un po’ di tempo ti portano a dare per scontate certe pratiche.
Ma posso veramente dire che la gavetta sia finita quando sono arrivato sui siti di videogiochi più grossi, quando sono passato a Corriere e poi La Stampa, quando ho dovuto iniziare a parlare in pubblico o in televisione?
E se fossi ancora oggi, a 43 anni, in una sorta di gavetta avanzata, in cui costantemente devo trovarmi a essere quello che arriva in un settore nuovo e cerca di capire da solo il mestiere con occhi e mani (anche perché nel frattempo i mentori sono spariti, o almeno mi pare)?
È un discorso che volendo potremmo interpretare in chiave positiva, no?
Imparo, dunque sono
In fondo è facile iniziare con la retorica, anche giusta, su quanto sia importante la formazione continua. Così come certe aziende vivono sempre in fase di startup, per non perdere la scintilla innovativa, così il freelance deve costantemente accumulare nuove informazioni per non farsi superare dal mondo.
È anche un discorso assolutamente giusto, soprattutto in certi campi, tipo la medicina, ma anche i media. Io poi sono uno che ama mettersi in discussione, amo imparare cose nuove e una parte di me ama quel senso di incertezza che hai quando rischi fuori dalle tue certezze.
Però c’è una differenza importante tra la formazione continua e la gavetta continua, ovvero ritenersi, o essere ritenuto, sempre in una condizione di formazione sì, ma subalterna: che la prima deve finire da giovani, la seconda no.
Forse la mia è una visione viziata dal mercato del lavoro italiano, ma spesso l’idea che tu sia una persona giovane e bisognosa di imparare ti resta attaccata anche quando ormai ti alzi dicendo “oplà” e non recuperi più bene da una sbronza. Perché finché ti credi un giovane che deve imparare ringrazi per gli spicci e sei più facile da sfruttare. Si è totalmente perso il concetto di “avanzamento” perchè da anni chi doveva farti avanzare è rimasto là.
E quindi, soprattutto se sei un freelance o in generale qualcuno che vive costantemente di situazioni temporanee, finisci per sentirti sempre in divenire.
Ti formi, ti formi ancora, accumuli letture e competenze perché è questo che ci si apsetta da te, questo è il tuo compito. Ci si aspetta che tu sia sempre pronto alla bisogna, qualunque essa sia, come un coltellino svizzero.
Che tu sia, di fatto, una specie di marchio, di azienda, e la tua merce è la tua competenza. Quindi, se non accumuli competenza sei come un’azienda che ferma le sue macchine e non innova. Sacrilegio.
Però le persone non sono marchi, non sono brand, nonostante negli ultimi anni le crisi ci abbiano spinto sempre di più a considerarci come tali, come imprenditori di noi stessi, visto che tanto le aziende ci sfruttavano. Senza aziende non siamo più in attesa di passare dalla gavetta al posto che ci spetta no? Lo creiamo noi il posto che ci spetta!
E invece.
Saper fare non basta più
E nel frattempo, questo vale per chi scrive ma anche per chi fa qualsiasi altra cosa, tu come persona non basti più. Non bastano le mie parole, non basta che io sappia scrivere, parlare o girare un video, devo saperlo vendere, mostrare al pubblico sui social, devo farmi conoscere. Che io scriva, canti, dipinga e così via.
Come se già la gavetta eterna del mercato del lavoro e della cultura imprenditoriale non fosse abbastanza, anche per gli algoritmi siamo sempre in gavetta. Perché cerchiamo costantemente di capirli, di fregarli, di blandirli e di fare come vogliono. E non è la stessa cosa di quando cerchi di impressionare qualcuno in un colloquio di lavoro, là non c’è una complessa equazione che ti penalizza se metti un link.
Ma io non voglio vivere come un aruspice che deve interpretare il volere degli Dei guardando in che modo gli uccelli volano sopra casa di Zuckerberg. Io voglio scrivere, lavorare sulla mia scrittura, sui miei articoli, comunicare, certo, ma non solo perché se non lo faccio con un video con sotto la canzone giusta non mi vede nessuno (e non mi vede nessuno comunque) e in generale sparisco dal mondo.
E sapersi vendere dovrebbe senza dubbio essere una qualità ma non la prima qualità. Di sicuro non è una qualità in cui eccello, ma vorrei non essere giudicato solo per quella.
Anche perché il risultato finale è quello di farmi diventare un marketer sempre più bravo, forse anche un comunicatore sempre più bravo, ma uno che ha sempre meno tempo per scrivere e migliorarsi in quello che poi il lavoro da fare.
E quindi paradossalmente questa gavetta eterna in cui conta più quanto piace al “capo” che come lavori non solo non finisce mai, ma rischi pure di uscirne peggio di prima.
Quindi, sono io che amo formarmi costantemente e comunicarlo o questa cosa mi è arrivata per adeguarmi a un settore per cui si è sempre quelli che ancora devono imparare qualcosa prima di sistemarsi?
Linke a altre storie
The Iron Claw è un film che parla di maschilismo tossico e famiglie terribili, sarebbe molto utile per decostruire certe figure, ma dubito che se lo vedrà la gente che ha visto Barbie.
Non so se avete visto Hazbin Hotel, ma c’è una fetta dell’internet che ama follemente questo cartone su Prime Video a base di demoni, redenzione e queernes.
Se vi interessa ho scritto di Final Fantasy VII: Rebirth. E c’è anche un collegamento da Londra per la Rai con ospite speciale.
Scrittori e content creator di IGN, uno dei più grossi e duraturi siti pop mondiali, hanno deciso di riunirsi in un sindacato. Vista la situazione dei media americani c’è la palese intenzione di proteggersi da licenziamenti di massa. Altra cosa impensabile da noi, non puoi licenziare chi non assumi.
Il riassunto di quanto sta investendo il gruppo GEDI, quello di Repubblica e La Stampa, quello che poi ogni tanto tira i cordoni della borsa a noi influencer e non pensa neanche per un secondo di assumerti.
Xbox potrebbe presto diventare altro, o forse no, ma qualcosa di grosso bolle in pentola.
Intanto Epic lavora col Disney per allargare il suo metaverso, quello vero, non le sparate da marketer.
Questo articolo di Vox, che in parte ha dato idee anche alla newsletter di oggi, è girato tantissimo nella mia bolla e spiega molto bene la frustrazione di dover essere costantemente in fase di promozione di sé.
Ma vi ho consigliato la newsletter di Fabrizia? Sennò lo faccio subito.
Lo Zampini mi ha sbloccato il ricordo di Canabalt, quindi si merita la condivisione.
E anche oggi Zave parla di videogiochi in modo originale, ci sarà un motivo s elo fa da anni.
Se ripenso alla mia gavetta, è proprio cambiato tutto. Credo di aver accumulato un certo numero di lavori e assolto compiti "formativi", ma l'evoluzione è stata abbastanza rapida. L'impatto, però, è stato molto utile, in maniera a tratti brutale. Quando ho iniziato mi è stato chiesto, come prima cosa, di recensire un gioco di cui sostanzialmente non fregava niente a nessuno (Pro Pinball The Web, un simulatore di flipper per PlayStation). A me andava benissimo così, sono tornato a casa con il gioco e ci sono rimasto per un po'. Una decina di giorni dopo mi sono ripresentato in redazione con l'articolo e il gioco, il commento del caporedattore: "ah, ben tornato, credevo fossi scappato con il gioco". Insomma, forse avrei dovuto metterci di meno. Quella prova è andata bene e si è passati alle traduzioni, in assenza di giochi di secondo/terzo piano da assegnarmi. Erano mesi in cui mi veniva data la fotocopia di un articolo di Games Master (UK) da mezza pagina e dovevo tramutarlo in due pagine su Game Power. È stata una palestra interessante, che mi ha consegnato l'abilità (non sempre amabile) di improvvisare e di allungare un po' a casaccio (mi servì anche a scuola). Sono andato avanti a lungo a tradurre e riadattare per altre riviste dello stesso editore. Mi facevo pomeriggi in redazione a tradurre le soluzioni dei giochi già nell'impaginato su Mac, imparando qualcosa anche lì, ma già nei primi mesi ero riuscito a farmi assegnare una recensione a cui tenevo tantissimo: J. League Perfect Striker per Nintendo 64. E ce la feci semplicemente perché mi ero comprato io il gioco. Ma credo che andò abbastanza bene. Sempre nello stesso periodo, quando già sentivo di aver ormai preso dimestichezza con la cosa, scrissi una recensione ridicola che credevo fosse molto divertente (era per International Superstar Soccer Deluxe per Psx), lo stesso caporedattore (a cui voglio molto bene), la lesse e mi fece sapere che "questa volta OK, ma mai più". Non è successo mai più. La prima recensione di un gioco da copertina è arrivata dopo un anno e mezzo credo, ma poi, grazie al mercato editoriale del settore che stava esplodendo, mi sono ritrovato a nemmeno tre anni da Pro Pinball The Web a dover coordinare una rivista. Questo quasi unicamente perché l'editore (intanto era cambiato) non ne sapeva nulla e gli bastava buttare qualcosa in edicola. Prima c'era stato Console Keeper, online, che era stato un altro anno e mezzo di "impariamo l'internet". Ma insomma, la mia gavetta in senso più tecnico e cronologico è durata tutto sommato poco, anche se mi è stata utilissima (con gli esempi di correzioni brutali e di lavori apparentemente insulsi che mi hanno insegnato qualcosa potrei andare avanti un bel po' - forse per quello non mi pesava continuare a fare quelle cose anche quando ho iniziato a essere io il responsabile della rivista).
Sono andato un po' lungo, scusate l'egomania.
E sono pure andato un po' fuori tema. Scusate l'egomania.