Diventeremo tutti giornalisti influencer?
A un certo punto devi mollare perché la corrente è troppo forte, ma forse non lo siamo già?
Un paio di settimane fa tornavo da Barletta, dove ho partecipato al Tessiture Festival, un evento di editoria indipendente appena nato ma che già sembra fatto col cuore e le impostazioni giuste. Mi ha stupito la presenza della gente, soprattutto al mio evento dove si parlava di videogiochi e di Vivere Mille Vite (il libro che ho scritto, se non lo sapeste).
Un po’ perché ho sempre paura che non venga nessuno, ed è una paura normalissima quando sei una persona qualunque, senza un ampio seguito consolidato (ed è successo), un po’ perché il tema in Italia è sempre un po’ complesso da trattare fuori dai discorsi di settore e quando lo si fa raramente avviene nei toni che utilizzo io nel libro.
Ma stavolta la realtà dei fatti mi ha smentito, il pubblico era appassionato e incuriosito, le domande sono state belle e per questa volta mi godo l’affetto ricevuto.
Due cose mi hanno colpito: la prima è stata questa frase che mi è arrivata dopo aver spiegato perché Granturismo mi riporta a mio padre e a volte i videogiochi creano legami profondi anche se non nascono per quello.
“Ci tenevo a ringraziarti perché dopo l'incontro dell'altro giorno ho finalmente capito la bellezza del perché giocare mi piace così tanto e perché giocare e rigiocare mille volte ai videogiochi a cui vedevo giocare mio fratello per me è così bello. Ti ringrazio davvero dal profondo.”
Che insomma, fa piacere. Se riesco a far passare questo concetto potrei aver venduto una sola copia e sarei comunque felice.
Sempre nel mezzo
Realizzo solo oggi che mi sembra di aver sempre fatto una vita da spartiacque. Nasco a cavallo tra Gen X e Millennial, ho fatto il liceo a metà tra una vecchia villa medicea e un anonimo edificio poco fuori Firenze, ho fatto il primo esame di maturità del nuovo corso, quello in centesimi, e tra le prime lauree triennali.
Una vita a metà tra il mondo prima di internet e quello dopo. A metà tra un giornalismo e quello dopo. Sarà per quello che spesso mi sento un po’ fuori posto nelle cose, o forse sto solo romanticizzando la mia vita. Forse è solo materiale per un altro libro.
D’altronde c’è questa frase crudele e bellissima che dice più o meno “Il mondo per cui sei stato cresciuto per sopravvivere non esiste più”. Anche per un giornalista il mondo a cui era abituato non esiste più da anni. Il che non è automaticamente una brutta cosa, ne una cosa bellissima perché “viva il progresso”. È semplicemente quello che è successo.
Ho iniziato a pensare di voler fare il giornalista in un modo dove il massimo dei social network erano MySpace, Facebook è arrivato da noi quando più o meno avevo già finito. Si scriveva già molto su internet, i siti facevano e i blog iniziavano a dire la loro, ma la mia idea di giornalismo era semplice: trovare una testata in cui entrare in qualche modo, fare pratica, sperare mi assumessero e passare la mia vita a scrivere.
Di cosa non sapevo, forse politica, forse cronaca nera, magari videogiochi, magari tecnologia, l’importante era farlo.
Era uno schema semplice: proporre o ricevere articoli, scriverli, passare al successivo. Promozione di me stesso? Curare un account social che mostrasse cosa faccio? Tessere una rete di contatti perché non si sa mai chi ti può far scrivere? Naaaaaa. Vedevo il lavoro come un operaio, solo con più domande da fare in giro.
Badate bene, già all’epoca colleghi più grandi che incrociavo alle conferenze stampa mi dicevano “ma chi te lo fa fare?”. Ma io ero troppo testardo e idealista, come è giusto esserlo e come giusto che lo sia chi vuole provarci oggi.
Poi nel frattempo è cambiato tutto: ho iniziato a scrivere molto più su internet e molto più di tecnologia e videogiochi, i quotidiani facevano spallucce e mi son dovuto confrontare con due fattori importanti: i commenti sotto gli articoli che hanno completamente trasformato la percezione della distanza tra chi scrive e chi legge (ne parleremo) e la figura del giornalista come one man band che scrive, si pubblicizza, presenta, modera, interviene, fa un po’ di tutto.
Non che prima i giornalisti non facessero altro ma oggi sembra diventata la norma, anzi, la regola. Spesso in spazi in cui i giornalisti intervistano altri giornalisti.
E lo fanno perché il lavoro giornalistico oggi non ti garantisce di sopravvivere. Lo diciamo ormai da anni no? E poi nel mondo di oggi se stai zitto per più di un secondo o non posti ogni minuto sparisci, non esisti più, mentre gli altri avanzano, si fanno vedere, magari si svendono pure pur di mettersi di fronte a te.
Di solito in questi casi arriva una persona che mi dice “io ci riesco benissimo, ho un contratto, ho fatto questo, ho fatto quello, sono la prova che ce la si può fare”. In questi casi mi congratulo ma cerco di spiegare che se il singolo non ce la fa non può essere indice di un settore in salute. Soprattutto in un settore dove spesso sopravvive quello che resiste dopo anni di logoramento.
Penso che arriverà un momento in cui tutti giornalisti dovranno in qualche modo diventare content creator, mollando ogni riserva su quelle poche norme che li separano, almeno sulla carta, per abbracciare definitivamente una situazione molto più versatile, fluida.
Tanto, altra cosa che dico ormai da anni, il giornalismo è diventato uno scomodo ostacolo tra la merce, o il politico, e il pubblico. E quindi in un mondo in cui i CEO delle aziende sono influencer, i politici sono influencer, anche i giornalisti diventeranno influencer e ognuno parlerà solo in spazi dove non c’è il rischio di beccarsi una domanda scomoda. Mentre chi è rimasto a bocca asciutta diventerà una specie di canale fatto solo di rabbia e attacchi. Insomma, la polarizzazione estrema che già stiamo vivendo.
Platee amiche
D’altronde già accade, così come Musk o Zuckerberg cercano di andare solo in podcast gestiti da ex startuppar o personaggi del settore in cui si ergono castelli “contro la cultura woke” (a quanto pare oggi anche fare domande su privacy, sicurezza, investimenti e rispetto delle leggi è diventato woke) come racconta bene Il Post, così Sangiuliano fa una intervista che di fatto è una conferenza stampa con le domande di polistirolo.
Io dico sempre che il mondo del giornalismo pop è un po’ un frattale di quello che succede poi, amplificato, nel mondo del giornalismo generalista.
Oggi i giornalisti che si occupano di serie tv, videogiochi eccetera stanno piano piano sparendo (e alcuni giornalisti, inteso come gente col tesserino che cercava di rispettare un’etica e scriveva in testate registrate, non lo sono mai stati) a favore di figure ibride: un po’ di informazione, un po’ pubblicità, un po’ agenzia media. Non è più questione di bene o male ormai, come dicevo all’inizio è semplicemente quello che è successo.
E succederà o è già successo anche al giornalismo “serio”. In cui sempre più gente cura soprattutto le proprie storie instagram e i propri reel mentre l’articolo è solo un pezzo tra una conferenza, una ospitata, il prossimo libro.
Spiace solo quando i creator e i giornalisti, sentendo un po’ la crisi di views, iniziano a battere sul tamburo del politicamente corretto, sicuri che almeno là qualche tizio incazzato perché gli hanno messo i pronomi neutri nel suo gioco preferito o troppi personaggi di colore in una serie tv, qualche attenzione gliela dà. Che fanno il pari con quelli che vivono solo se hanno qualcuno da mettere su una gogna, in uno stato di reciproca sorveglianza continua, dove però il callout si fa solo a chi non è amico.
Ma che ci vuoi fare, spesso è anche una questione di sostenibilità, è una questione che bisogna campare. E di fronte al bisogno di campare, hai voglia a discutere di pratiche poco chiare, rapporti un po’ troppo stretti coi media, mancanza di indipendenza e così via. Puoi rimanere quanto vuoi attaccato alla roccia, ma prima o poi la corrente vince. E vincerà un mondo in cui le piattaforme ci detteranno i temi, in cui se parliamo di Palestina verremo oscurati, in cui saremo ancora più incattiviti gli uni contro gli altri per quel briciolo di attenzione su cui speriamo di pagare le tasse a fine anno.
Ecco perché diventeremo tutti news influencer e forse lo siamo già. Io lo sono già? Non lo so, non credo, vedremo, ditemelo voi. So solo che, porca miseria, mi trovo a cavallo dell’ennesimo spartiacque.
Link!
In quel gran bel podcast che Cap & Tanz tengono in piedi ormai da qualche anno su N3rdcore ho parlato di World of Warcraft e Space Marine 2. Lo trovate video, ma anche solo audio..
Ho scritto dell’ennesimo bel libro di videogiochi e ci ho messo dentro come al solito i fatti miei.
Visions of Mana è un bell’JRPG se amate il genere.
E infine, quali sono i videgiochi su cui si scrivono più fanfiction?
Heavy Meta fa parte di un magnifico trio con:
Vissuti gli stessi anni (incluso nuovo esame di stato, rinnovamento dell'università e cambiamento della professione), con l'aggravante di aver iniziato a collaborare coi giornali negli ultimi rantoli dei tempi d'oro... Illuminante come sempre, Lorenzo. Il cambiamento che annoti è già in atto e investe giornali e giornalisti. Sempre in bilico!
Parole a cui concordo. Concordo perché ne sto iniziando anche io a sentirne il bisogno o forse la necessità. Perché se nella testata in cui si scrive non c'è più una vera possibilità di evidenziarsi con pezzi seri e approfonditi che la gente però apprezza veramente sempre meno allora forse c'è necessità di cambiare ed entrare nel trend dei giornalisti influencer. Non so se è la mia strada.. soprattutto a 42 anni suonati ma di fatto ci sto pensando anche se a malincuore.