Perché ci interessa l’opinione del carnefice?
Ogni atto violento o gesto aberrante porta con sé la voglia di far parlare chi lo ha commesso, a volte è informazione, a volte è solo intrattenimento.
In queste ore è stato pubblicato il Digital News Report1 di Reuters, uno strumento importante per capire come cambia il mondo dell’informazione in tutto il mondo, perché fornisce dati sulle tendenze globali e indicazioni su quelle nazionali.
E se in tutto il mondo è evidente lo spostamento dell’informazione verso piattaforme sempre più disintermediate dove la possibilità di mostrare ciò che non viene visto in televisione o sui giornali convive con la paura delle fake news e delle IA che intorbidiscono le acque, in Italia si nota un crollo abbastanza netto dell’importanza del medium televisivo.
La TV era la principale fonte d’informazione per l’85% del campione nel 2017 mentre oggi lo è per il 65%, con la maggior parte dei più giovani che oggi preferiscono informarsi su YouTube, TikTok e addirittura social chiusi come i gruppi di Whatsapp e Telegram.
E interessante anche notare che la TV ha una raccolta pubblicitaria che è il 29% del totale, mentre il 58% spetta alla pubblicità online, e che di questa cifra l’85% finisce in tasca a Google e Meta e solo il resto va a gli editori. Quindi si spende tanto in pubblicità online, ma quei soldi poi non alimentano il sistema dell’informazione, ma solo chi col tempo ci ha costretto al ricatto della SEO e degli algoritmi.
Che poi è il principale motivo per cui nel passaggio dal giornalismo tradizionale a quello online il settore è colato a picco e oggi è praticamente impossibile campare con la professione: il sistema economico che prima garantiva sussistenza è oggi completamente in mano alle piattaforme.
Ed è anche lo stesso motivo per cui magari chi vuole fare informazione a qualsiasi livello, che si parli di attualità, giornalismo tech, notizie di cinema o analisi di moto, forse preferisce farlo cercando di diventare un content creator in quella nicchia (con tutti i pro e contro del caso nei rapporti con le aziende), scartando fin da subito l’idea di provare a entrare in una redazione.
Se le percentuali di riuscita sono altrettanto basse, forse meglio provare a diventare Breaking Italy e non l’ennesimo tizio che può essere sostituito o fare la fine della redazione di Hollywood Reporter Roma, che è al terzo sciopero.
Ah e se pensate che gli abbonamenti siano la soluzione… beh non è detto. Forse, se il progetto è piccolo e può contare su uno zoccolo duro di appassionati, forse.
Le passioni del caporale
La morte di Satnam Singh nell’Agro Pontino è il classico caso che scoperchia temporaneamente una situazione che la maggior parte delle persone che non vivono la realtà locale ignora, fa finta di ignorare o ritiene accettabile. Moltissime sono le analisi che in queste ore ci mostrano quella è che a tutti gli effetti una realtà di schiavismo, sfruttamento, totale mancanza di rispetto per la vita umana, razzismo e il risultato del capitalismo a ribasso di cui, ci piaccia o meno, siamo in qualche modo complici.
A me interessa invece capire alcune scelte fatte nel raccontare questa storia, che sono scelte che hanno molto in comune con un altro momento in cui c’è spesso disparità di trattamento tra vittima e carnefice, una disparità che è culturale ma anche narrativa. Anche perché il problema delle vittime è che non parlano più, debbono farlo gli altri. E spesso a farlo è chi le ha uccise.
La ricostruzione della morte di Singh mi ha ricordato il consueto teatrino dei femminicidi, in cui una delle prime cose che si fanno è cercare di ricostruire le ragioni dell’assassino, il contesto in cui si è mosso il gesto violento, che è quasi sempre trattato con eccezionalità e non come il frutto di una realtà sistemica, reiterata, protetta, nascosta e giustificata.
Una “leggerezza” come l’ha definita il padre del padrone dell’azienda in una intervista ormai diventata parte del terribile quadro in cui si muove il processo mentale di prendere un tizio col braccio mozzato, togliere i telefoni a chiunque fosse presente, scaricarlo a casa, lasciare il braccio vicino a un cassonetto e scappare.
E in tutto questo mi cade l’occhio su un articolo di Repubblica Roma che titola “Le due passioni di Antonello Lovato, il proprietario della ditta per cui lavorava il bracciante morto”
Ma sul serio?
Abbiamo nome e cognome del padrone della ditta e poi “il bracciante morto”?
Mi secca ripetermi ma per l’ennesima volta questo è perfetto caso di framing, ovvero di come la notizia viene incorniciata, con nomi e cognomi da una parte e generici braccianti morti dall’altra. Morto, come se l’omissione di soccorso fosse un dettaglio.
L’articolo adesso non si trova più, o meglio, se ne trovano i resti, ma poi dev’essere stato modificato con una impostazione più generica per dare un profilo del personaggio. Quello su cui mi interessava riflettere era il perché si arrivi sempre a questo punto: lo storytelling dei carnefici o presunti tali, la profilazione che si fa narrazione, il dettaglio delle loro passioni, dei loro interessi, delle loro vite apparentemente comuni e poi magari del fatto che hanno pianto in tribunale, che si disperano, che mangiano.
Da una parte potrebbe anche essere utile e necessario per mostrarci che l’abiezione spesso non ha il volto del cattivo del cinema, non c’è un tizio che ride sguaiatamente vestito come il joker, ma uomini normali, banali, semplici, ritenuti magari amici tranquilli e padri amorevoli, ma capaci di applicare logiche schiaviste o accoltellare l’ex moglie. Purtroppo, però questo scatto non arriva mai. C’è sempre il raptus di follia, il momento eccezionale, quandi invece è tutto molo banale.
Sicuramente c’è l’antico gusto di sbattere il mostro in prima pagine, il nostro bisogno di vedere in faccia questa gente e sperare che non sia come noi, per assolverci, confortarci o per cercare i motivi eccezionali di una tragedia. Un po’ di gogna pubblica ci sta, ci piace e nel giornalismo contemporaneo abbiamo gli strumenti seo che ci indicano quanto il colpevole sia cercato su Google. Il che rendo un articolo su suo profilo un gesto economicamente sensato.
In fondo è giornalismo no? Se qualcuno vuole saperlo io glielo devo dire (peccato che non sia vero e che in alcuni casi le identità delle persone indagate vadano protette, ma qua pare fantascienza).
Ma perché il taglio dev’essere quello in cui mi racconti “le sue passioni”? Io non lo so, vi giuro, non lo capisco, non capisco mai se dietro queste scelte c’è un tentativo di normalizzare il tutto, se il nostro disprezzo per minoranze e diversi sia tale per cui ci interessa solo la persona coinvolta che più ci somiglia o cosa, se è leggerezza, calcolo, fretta.
Forse è solo che oggi il giornalismo, in tutte le sue forme, deve intrattenerci. Uno dei principali effetti di una informazione ormai straripante è che è diventata un passatempo, una confezione di popcorn sempre piena. E quindi vale tutto.
Leggevo su Charlie, la newsletter de Il Post sul giornalismo, che uno studio su fake news e manipolazioni IA sostiene che avranno un impatto relativamente marginale sul fenomeno delle informazioni false, perché tanto già ci crediamo e ciò che le rende veramente efficaci e la nostra voglia di crederci.
Quindi, se forse l’unico modo per limitare le notizie false e manipolatorie e intervenire sui lettori, anche questa informazione che intrattiene, fa arrabbiare e non informa si limita allo stesso modo. Il che non vuol dire che il cattivo giornalismo sia colpa dei lettori, ma che anche loro possono fare la loro parte.
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Link e altre cose
Su N3rdcore vi parliamo di Fanfiction, ovvero spieghiamo cosa sono.
E nel podcast di Cap & Tanz si parla di “Idea man”, ovvero Jim Henson, ovvero l’uomo dei Muppets.
Parlo spesso di come il giornalismo videoludico e tech stia cercando sempre di più di sganciarsi dalla figura dei giornalisti, ma a quanto pare anche nel giornalismo sportivo la disintermediazione sta prendendo piede.
Rimango sempre affascinato e spaventato dalla capacità quasi tutta americana di creare e smontare mostri attraverso i social. E per mostri intendo proprio cose da mostrare, persone che per una frase diventano improvviamente meme. Adesso è il momento della Hawk Thua Girl, che ha già invaso la mia timeline di remix, controremix, magliette, gadget e così via.
Da quando ho letto questo pezzo passo il tempo a guardare i calzini delle persone.
Che facciamo con gli investimenti dell’Arabia Saudita nel mondo videoludico?
Heavy Meta è molto amica e probabilmente in futuro diventerà una cosa sola con:
https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/digital-news-report/2024/italy
Grazie Lorenzo, è una bella riflessione. Mi sto chiedendo come dovremmo cambiarla la narrazione di questi carnefici, come dovremmo indagare più a fondo questi gesti mostruosi in modo da mostrare quali siano le condizioni che determinano un gesto così privo di umanità. Certamente non raccontando le sue passioni, perché queste non ci dicono nulla di come si arriva fin là. Ma è come se in questo istinto di "avvicinarci" al mostro (parlando di cose quotidiane, che a volte magari potremmo perfino condividere) ci sia un moto che ha un senso. Solo che manca poi tutta la parte di inchiesta vera. Quella che indaga ogni singola svolta, che fa vedere come si è creato quel percorso. Per cui tutto diventa gratuitamente morboso e basta.
La mia — cinica, ammetto — ipotesi è che la ratio di tali articoli sia la stessa delle pseudo-trad wife che preparano atrocità in casseruola: la gente si incazza per lo schifo che vede, reagisce e anche quello fa engagement. È proprio per fare incazzare, poi rivedere il titolo e fare fare un secondo giro all'articolo